giovedì 27 febbraio 2025

Corso di storia dell'arte: 60 Il volto del Divino: Gesù nell'immaginario romanico

Il volto del Divino: Gesù nell'immaginario romanico

Nel cuore delle chiese romaniche, tra le volte austere e le pareti cariche di affreschi, si staglia una figura imponente, solenne, assoluta: Cristo Re. Non è il Gesù mite e terreno che accoglie i peccatori con lo sguardo dolce, ma un Pantocratore, un sovrano dell’universo che giudica e domina, seduto in trono al centro dell’abside come in una sala del trono celeste.

Jacques Le Goff, grande interprete del Medioevo, ci guida a comprendere il perché di questa iconografia: il Cristo dell’arte romanica è prima di tutto Rex, re, più che Dominus, signore. Gli sono conferiti gli attributi della regalità assoluta: il trono, simbolo del comando; il sole e la luna, che gli ruotano intorno come servitori cosmici; le lettere alfa e omega, segno dell’inizio e della fine; i vegliardi dell’Apocalisse, testimoni eterni del suo potere; e a volte persino la corona, a suggellare la sua autorità divina.

Questo Cristo regale non è isolato. Egli è l’anima stessa dell’edificio sacro, che diventa palazzo del Re dei cieli. La sua posizione, spesso nell’abside o sotto una cupola, richiama le sale del trono delle antiche rotonde iraniane. L’architettura stessa si piega alla simbologia: ogni navata, ogni colonna è un omaggio al potere trascendente.

Accanto a questa figura solenne, però, esiste anche un altro volto del Redentore: Cristo crocifisso, ma non sconfitto. Anche quando il suo fianco è piagato e le membra distese sulla croce, il suo sguardo è fermo, vittorioso. È il Cristo triumphans, che domina la morte, che non conosce ancora il dolore umano del patiens, introdotto solo più tardi. È un Dio che regna anche nel sacrificio, che si offre ma non crolla.

La Chiesa, consapevole del potere delle immagini, fece di questo Cristo Re uno strumento di legittimazione del potere temporale. I re e gli imperatori dell’epoca si riconobbero in lui, ne adottarono i simboli, e a loro volta si fecero raffigurare come suoi rappresentanti terreni: sacri sovrani per diritto divino, in un'alleanza fra altare e corona che avrebbe segnato secoli di storia.

Eppure, l’immaginario cristiano non si esaurisce nel trionfo. All’interno delle chiese romaniche si affacciano altre icone del Cristo Uomo: il Buon Pastore che guida il suo gregge, il Dottore che insegna la verità, il Cristo cosmologico inscritto in una ruota, come nella celebre vetrata della cattedrale di Chartres, dove il sole stesso diventa aureola.

Queste immagini sono ricche di simbolismo naturale e sacro: il frantoio e il mulino mistico che schiacciano i frutti per generare vita eterna; la vigna e il grappolo d’uva, rimando eucaristico e parabola evangelica; il leone e l’aquila, segni di forza e maestà; il liocorno, creatura leggendaria simbolo di purezza assoluta; il pellicano, che secondo la leggenda nutre i propri piccoli con il proprio sangue, immagine struggente del sacrificio di Cristo; e la fenice, l’uccello che risorge dalle proprie ceneri, figura perfetta della resurrezione e dell’immortalità dell’anima.

Ogni immagine romanica di Cristo, che sia scolpita nella pietra o dipinta su un muro, non è solo arte: è teologia visiva, è dottrina scolpita per gli analfabeti, è emozione tradotta in forma. È il tentativo, grandioso e umile insieme, di dare un volto all’invisibile.


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