sabato 16 agosto 2025

Corso di storia dell'arte: Man-Ray 1890

Man-Ray 1890


Man Ray — il mago delle immagini e degli oggetti

Man Ray (nato Emmanuel Radnitzky) è uno di quei nomi che, appena lo pronunci, fa scattare nella mente immagini sorprendenti: fotografie che sembrano sogni, oggetti di uso quotidiano che si trasformano in piccole bombe poetiche, e film che scompongono la realtà come fossero note musicali. Nato negli Stati Uniti e diventato parigino d’adozione, fu al centro del fermento dada e surrealista, capace di giocare con la tecnica come con l’ironia.


Vita in pillole (ma con brio)

Emmanuel Radnitzky nasce a Filadelfia nel 1890 e fin da giovane mostra un’anima curiosa: studia architettura, poi si lascia sedurre dalla pittura, dalla fotografia e dall’ambiente avanguardista newyorkese. L’incontro con Alfred Stieglitz e con le mostre dell’Armory Show spalanca la porta sull’arte europea; la sua adesione al movimento dada negli Stati Uniti lo spingerà, nel 1921, a trasferirsi a Parigi, dove si inserisce nella comunità di artisti che cambia il senso dell’arte moderna. In quella città Man Ray trova la scena, le muse e la libertà tecnica che cercava.


Rayographs, solarizzazioni e il gioco della luce

Forse la sua invenzione più famosa è la rayografia (o photogram), tecnica che gli permise di “scrivere” con la luce senza usare la macchina fotografica: oggetti disposti direttamente sulla carta sensibile, una fonte luminosa, e il risultato è un’immagine che somiglia a un’impronta, a una traccia di presenza. Man Ray chiamò questi esperimenti Rayographs, e con essi spostò la fotografia dal registro del documento al territorio del simbolo e del sogno.

Un’altra scoperta praticata insieme a Lee Miller fu la solarizzazione, un effetto in cui il positivo e il negativo si mescolano per creare contorni stranianti e contorni “al contrario”: è come se la fotografia si mettesse a cantare note al contrario, rivelando dettagli nuovi e inquietanti.

Perché è importante? Perché Man Ray trasformò la fotografia in una materia plastica: non più solo registrazione del mondo, ma scultura di luce. Questo apre la strada a buona parte della fotografia artistica del XX secolo.


Oggetti che fanno parlare: da Cadeau a Object to Be Destroyed

Man Ray amava prendere un oggetto banale — una piastra da stiro, un metronomo — e operare una lieve, geniale perversione. Così nasce Cadeau (The Gift), un ferro da stiro su cui incolla una fila di punte metalliche: un oggetto domestico diventa gag, trappola, strumento ironico di rovesciamento. È divertente, feroce e immediatamente leggibile — e proprio per questa immediatezza urta, sorprende, fa ridere e pensare.

Un altro oggetto celebre è Object to Be Destroyed (1923): un metronomo con una fotografia di un occhio appesa al pendolo. È un ready-made che combina tempo, sguardo e suspense: il ticchettio misura l’attesa, l’occhio suggerisce desiderio, sorveglianza, presenza di qualcuno che osserva. L’opera ha una storia curiosa — venne infatti attaccata da alcuni studenti nel 1957, e in seguito Man Ray ne realizzò versioni e remake ribattezzandole Indestructible Object — segno che l’ironia del titolo può facilmente diventare realtà.

Commento leggero ma acuto: quegli oggetti ci costringono a ridere e a sentirci in imbarazzo nello stesso istante. È l’effetto dada: mostrare la fragilità delle certezze estetiche attraverso l’oggetto più familiare.


Dipinti e collage: il gusto del paradosso

Non bisogna però relegare Man Ray alla sola fotografia-giocattolo. I suoi collage e dipinti (pensiamo a Revolving Doors o The Rope Dancer Accompanies Herself with Her Shadows) portano con sé una sensibilità pittorica che dialoga con i cubisti e i futuristi: è geometria del movimento, è fascino per l’ombra e la doppia identità. Spesso i collage sono montati su perni, diventando quasi piccoli meccanismi che suggeriscono movimento — come se il quadro volesse danzare.


I film: piccoli lampi di follia visiva

Man Ray non si fermò alla fotografia: nei suoi film sperimentali degli anni ’20 (Le Retour à la Raison, Emak-Bakia, L’Étoile de Mer, Les Mystères du Château de Dé) esplora il montaggio ritmico, l’uso diretto di materiali sullo stesso supporto cinematografico e l’accostamento di corpi e oggetti come note di una partitura visiva. I suoi corti non hanno una trama nel senso tradizionale; sono invece sequenze di invenzioni visive, ironiche, sensuali, dove il montaggio crea ritmo e senso come la musica fa per un jazzman. Recenti restauri e rassegne continuano a farli scoprire al grande pubblico.

Piccolo aneddoto pratico: in alcuni film Man Ray applicava sulla pellicola sale, pepe, o addirittura chiodi — materiali che, una volta passati nel processo di sviluppo, lasciavano impronte bizzarre sul fotogramma. È sperimentazione al limite del ludico.


Alcune opere chiave — spiegate come se stessimo parlando davanti a un caffè

  • Revolving Doors (1916–17) — collage che ruotano intorno all’idea del movimento: porte, ombre, meccanismi che suggeriscono apertura e chiusura. È un lavoro che parla la lingua della città in movimento.
  • L'Enigme d'Isidore Ducasse (1920) — un oggetto avvolto in una coperta e fotografato: mistero palpabile, come se l’oggetto custodisse un segreto letterario (Ducasse è il nome di Lautréamont).
  • Cadeau (1921) — il ferro da stiro con le punte: ironia violenta, gioioso sabotaggio della domesticità.
  • Object to Be Destroyed (1923) — metronomo con occhio: tempo e sguardo che si inseguono; arte che provoca reazione.
  • Montages fotografici e Rayographs (anni ’20) — piccoli mondi creati con ombre, oggetti, ritagli: poesia senza parole, visiva e immediata.

Perché Man Ray continua a parlarci?

Perché ha saputo fare due cose rare insieme: essere profondamente tecnico e follemente giocoso. Da un lato, ha messo a punto tecniche nuove (rayographs, solarizzazioni) che hanno ampliato le possibilità della fotografia; dall’altro, ha mantenuto sempre un tono di sfida giocosa, capace di sorprendere e smascherare. La sua grammatica visiva anticipa il collage odierno, il ready-made, la fotografia concettuale e persino certe pratiche digitali che riusano immagini e oggetti.


Due riflessioni finali (semplici)

  1. L’arte come scherzo profondo. Man Ray ci ricorda che l’ironia non indebolisce la profondità: spesso la rafforza.
  2. La tecnica come poetica. Per lui la tecnica non è fredda: è strumento di invenzione, di sorpresa, di emozione.



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