
Marcel Duchamp nacque il 28 luglio 1887 a Blainville-Crevon, in Francia, in una famiglia speciale: i suoi genitori, Eugène Duchamp e Lucie Nicolle, ebbero sette figli, di cui quattro divennero artisti di grande successo. I suoi fratelli Jacques Villon, pittore e incisore, Raymond Duchamp-Villon, scultore, e la sorella Suzanne Duchamp-Crotti, pittrice, insieme a Marcel formarono un vero e proprio clan creativo.
Duchamp fu un artista rivoluzionario, capace di attraversare molte correnti artistiche del suo tempo, dal fauvismo al cubismo, diventando anche un protagonista del dadaismo e del surrealismo. Ma il suo vero lascito fu l’invenzione dell’arte concettuale, grazie a idee geniali come il “ready-made” e l’assemblaggio, forme d’arte che sfidavano ogni tradizione.
Nel 1915, incontrò a Parigi il fotografo e pittore statunitense Man Ray, un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Insieme a due mecenati, Katherine Dreier e Walter Arensberg, fondò nel 1916 la Society of Independent Artists, un’associazione che promuoveva la libertà artistica.
La sua vita artistica fu anche segnata da lunghi periodi lontano dall’arte: dal 1918 al 1919 visse a Buenos Aires, mentre dal 1923 dedicò quasi dieci anni quasi esclusivamente agli scacchi, raggiungendo livelli da campione e diventando capitano della squadra olimpica francese, con accanto il celebre campione del mondo Alexander Alekhine.
Nel 1942 si trasferì definitivamente a New York, dove visse fino alla morte, avvenuta il 2 ottobre 1968 a Neuilly-sur-Seine. Nel 1954 sposò Alexina "Teeny" Sattler Matisse, sua compagna per tutta la vita.
Uno degli aspetti più affascinanti della sua personalità fu il gioco con l’identità, come quando si trasformò in Rrose Sélavy, un alter ego femminile che lo stesso Duchamp definì come un “ready-made” umano. Con questo pseudonimo firmò opere provocatorie e si fece fotografare in abiti femminili, giocando con il concetto di sesso, nome e identità.
Tra i suoi ready-made più famosi c’è l’orinatoio, firmato “R. Mutt”. Dietro quel nome, Duchamp giocava con ironia: “Mutt” richiamava un popolare fumetto americano e faceva da contraltare a “Richard” (ricco), capovolgendo l’idea di povertà. L’orinatoio, presentato nel 1917, scatenò un grande scandalo ma anche un dibattito rivoluzionario sul senso dell’arte.
Duchamp non voleva solo creare quadri belli da vedere, ma idee capaci di scuotere la mente. Come disse il poeta messicano Octavio Paz, Duchamp abbandonò la pittura tradizionale già a venticinque anni per dedicarsi a una “pittura-idea”, un’arte che andava oltre la vista e parlava al cervello.
Tra le sue opere più celebri c’è Nudo che scende le scale n. 2 (1912), un dipinto che sfida le regole del cubismo, raccontando il movimento non con più punti di vista fissi, ma con la ripetizione del soggetto in momenti successivi, ispirato alle scoperte della cronofotografia. Quando fu rifiutato a Parigi per il suo titolo “fumettistico”, fece scalpore all’Armory Show di New York, evento che lo spinse a trasferirsi in America.
Il capolavoro di Duchamp è però Il Grande Vetro (1915-1923), una composizione complessa e misteriosa fatta di lastre di vetro, metalli e polveri, mai completata, e considerata una delle opere più enigmatiche e affascinanti dell’arte occidentale. Durante un trasporto, l’opera subì danni, ma Duchamp decise di non ripararla, accettando il caso come parte integrante del lavoro.
In quegli anni, Duchamp giocava anche con il caso e la casualità, come nell’opera 3 stoppages étalon (1913), dove lasciava cadere fili da un metro per fissarne casualmente la forma, usandola poi come modello di misura: un modo geniale per far entrare il caso nell’arte.
Il suo rifiuto della pittura “retinica” e superficiale, quella basata solo sul piacere visivo, lo portò a ridefinire l’arte come un dialogo con la mente e non solo con gli occhi.
Alcune sue opere provocatorie, come la Monna Lisa con baffi e pizzetto (L.H.O.O.Q., 1919), sono diventate icone dell’arte del Novecento, anticipando l’arte concettuale e influenzando moltissimi artisti successivi.
Marcel Duchamp si spense il 2 ottobre 1968 e sulla sua tomba a Rouen fece incidere un’epitaffio ironico e profondo:
«D'ailleurs c'est toujours les autres qui meurent» — “D’altronde sono sempre gli altri che muoiono”.
Un uomo, un artista, un genio che ha rivoluzionato per sempre il modo di pensare l’arte.
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