ARTE ROMANA
Immagina una città che nasce da un mito e diventa padrona del mondo. Roma, dal leggendario abbraccio di Romolo e Remo fino all’imponente crollo dell’Impero d’Occidente, ha tracciato nei secoli un cammino artistico tanto vasto quanto complesso, capace di estendersi dalle colline laziali fino ai deserti africani, dai porti dell'Asia Minore ai confini ventosi della Britannia. Quando parliamo di arte romana, parliamo di un’avventura millenaria che intreccia conquista e contaminazione, potere e bellezza, ideologia e innovazione.
All’inizio, l’arte di Roma era semplice, quasi ruvida, figlia delle genti italiche — campani, etruschi, latini — che già decoravano il loro mondo con forme sobrie e simboli immediati. Ma tutto cambiò quando Roma incrociò la Grecia. Fu uno scontro e un abbraccio, insieme. I romani guardavano all’arte greca come a qualcosa di sublime e irraggiungibile, eppure consideravano gli artisti greci poco più che artigiani da sottomettere. Questo strano miscuglio di ammirazione e disprezzo non impedì ai romani di assorbirne lo stile, di copiarlo, reinterpretarlo, e infine farlo proprio. L’arte greca, prima mal tollerata, divenne progressivamente parte dell’identità romana, pur con varianti che mantenevano vive le spinte autoctone e, in qualche modo, anticipavano già l’arte romanica di secoli dopo.
Ma parlare di arte romana non è mai un fatto semplice: è come percorrere un fiume che si ramifica in mille rivoli, con confini che si allargano di generazione in generazione. Gli studiosi si sono a lungo interrogati su quando esattamente nacque “l’accento romano”, quell’inconfondibile impronta che distingue la produzione artistica della città eterna da quella delle altre culture italiche. E poi, via via che l’Impero si estendeva, sorse un’altra domanda: possiamo chiamare “romana” anche l’arte delle province? L’arte della Gallia, della Spagna, dell’Egitto ellenizzato?
In realtà, Roma non impose mai un modello unico. Piuttosto, fu una forza centripeta: da Roma partivano idee, valori, simboli del potere, ma questi si intrecciavano con le tradizioni locali, generando forme nuove, ibride, vitali. Questo continuo scambio tra centro e periferia, tra ideologia e creatività locale, fu il vero cuore pulsante dell’arte romana.
Eppure, Roma non si limitò a ricevere: cambiò, plasmò, impose. Anche nei territori ellenistici — fino a quel momento faro di civiltà artistica — si fece sentire la forza di una nuova visione. L’arte, per i romani, non era solo bellezza, ma celebrazione: dell’individuo all’interno dello Stato, dello Stato come garante di ordine e prosperità. In questa prospettiva, ogni statua, ogni bassorilievo, ogni affresco diventava parte di un discorso politico, un messaggio di potere e di appartenenza.
Lo storico dell’arte Paul Zanker ci invita a guardare l’inizio dell’arte romana non tanto con la fondazione della città o l’avvento della Repubblica, ma con un momento preciso: la conquista delle città greche. La caduta di Siracusa nel 212 a.C., quella di Taranto nel 209 a.C., la sconfitta del re Perseo di Macedonia nel 168 a.C., e infine la distruzione di Cartagine e Corinto nel 146 a.C. furono più che vittorie militari: segnarono l’ellenizzazione profonda di Roma. Da quel momento, non fu più solo l’arte dei vinti ad affluire a Roma: fu Roma stessa a trasformarsi, a ricreare il proprio volto a immagine e somiglianza di una civiltà conquistata ma mai davvero sottomessa.
L’arte romana, in definitiva, è un’epopea: una narrazione ininterrotta di potere, bellezza e contaminazione. E come tutte le epopee, continua a parlarci, a sedurci, a porci domande.
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