Differenze con l'arte greca

«È uso greco non coprire il corpo [delle statue], mentre i Romani, in quanto soldati, aggiungono la corazza.» (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 18)
Immagina un mondo dove le statue non parlano solo di dei e miti, ma raccontano la storia viva dei conquistatori, dei generali, degli uomini che hanno plasmato l’Impero. Un mondo dove l’arte non è soltanto bellezza, ma anche memoria, propaganda, autorappresentazione. Questo mondo è quello dell’arte romana, che nasce sì dall’arte greca, ma prende poi una strada tutta sua, concreta e profondamente legata alla realtà.
Quando i romani conquistarono Siracusa nel 212 a.C., poi la Grecia e l’Asia Minore tra il II e il I secolo a.C., non si limitarono a prenderne i territori. Presero le loro statue, i dipinti, gli oggetti preziosi, e li portarono a Roma come trofei. Come scrive Livio, da quel momento nacque un’ammirazione tanto sfrenata quanto inevitabile per l’arte greca. Fu l’inizio di un’invasione al contrario: la Grecia, pur vinta, conquistò Roma con la seduzione del bello. E Orazio lo disse con parole che ancora oggi restano scolpite nella storia: Graecia capta ferum victorem cepit — la Grecia prigioniera catturò il suo selvaggio vincitore.
Ma Roma non fu mai solo imitazione. Ispirata dalla Grecia, certo, e a tratti perfino rapita dal suo fascino, l’arte romana si piegò a un altro scopo: raccontare la realtà. Mentre i Greci sublimavano anche la storia in mito — trasformando le battaglie in lotte tra Dei, Centauri e Amazzoni — i Romani vollero mostrare il vero. Le loro opere rappresentano fatti, avvenimenti, protagonisti reali. Non l’idea astratta del coraggio, ma il volto stesso dell’uomo coraggioso. Non una figura mitica, ma un console, un imperatore, un senatore, con le rughe della saggezza e lo sguardo della determinazione.
Questa svolta fu rivoluzionaria. Nacque così il ritratto romano, una delle massime espressioni della loro arte, che non cercava l’ideale, ma il vero. Quei volti, scolpiti con cura, non cercavano la perfezione, ma la somiglianza, l’identità, la memoria. L’arte greca idealizzava, l’arte romana individualizzava.
Anche nelle statue, i romani non avevano timore di mescolare: a un corpo idealizzato, perfetto secondo i canoni greci, potevano unire una testa realistica, segnata dal tempo o dal potere. Una combinazione che avrebbe scandalizzato un greco del V secolo a.C., ma che era ormai diventata comune tra gli artisti neoattici del II secolo, proprio per soddisfare le richieste dei nuovi committenti: i patrizi romani, avidi di arte, ma anche decisi a essere riconosciuti e ricordati.
E se i Greci avevano fatto dell’arte una voce corale della polis, espressione di ideali condivisi, l’arte romana divenne più personale, più politica. Servì a costruire l’identità pubblica, a scolpire nella pietra il volto del potere, a imprimere nella mente del popolo la grandezza dell’Impero.
Così, nella sua concretezza, nel suo realismo, nella sua capacità di adattarsi e rinnovarsi, l’arte romana ci parla ancora oggi con voce ferma e lucida. È il racconto di una civiltà che ha voluto essere ricordata non per i sogni, ma per le conquiste.
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