martedì 21 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 28 Produzione di copie nell'arte romana

Produzione di copie

Tra i tanti tratti distintivi dell’arte romana, uno in particolare racconta molto del suo spirito pratico e della sua capacità di assorbire, reinterpretare e trasformare: la produzione in serie di copie delle opere d’arte greche. Non si trattò di un semplice omaggio all’estetica classica, ma di un vero e proprio fenomeno culturale e commerciale, che prese piede a partire dal II secolo a.C., quando a Roma si formò una classe di collezionisti avidi di bellezza e prestigio.

I bottini di guerra non bastavano più. Le statue trafugate da Siracusa, da Corinto, da Pergamo non soddisfacevano la crescente domanda delle élite romane, che desideravano adornare ville, giardini, portici e templi con opere ispirate ai grandi maestri del V e IV secolo a.C. La soluzione? Riprodurre, replicare, moltiplicare. Nacque così un'industria del bello, una produzione in massa che non si limitava alla scultura — la forma più visibile e duratura che ci è giunta — ma coinvolgeva anche la pittura, l’ornamento architettonico e le arti applicate. Tutto ciò che poteva arricchire lo spazio e comunicare gusto e potere era degno di essere copiato.

Queste copie, oggi, sono la nostra finestra su un mondo perduto. Grazie ad esse conosciamo i volti dell’arte greca: il pathos di Skopas, l’equilibrio di Policleto, la grazia di Prassitele. Ma le copie romane sono state, per molto tempo, anche trappole per gli studiosi moderni: il loro stile più rigido, talvolta scolastico, ha indotto a lungo a credere che l’arte greca fosse fredda, accademica, idealizzata fino all’astrazione — un’idea poi superata, ma difficile da sradicare.

E c’è di più: per i Romani il concetto di “originale” e “copia” non aveva lo stesso valore che ha per noi. Non esisteva un culto della primigenia, nessun feticismo dell’autenticità. L’opera d’arte valeva per il suo soggetto, per la sua bellezza, per il suo significato simbolico o decorativo. Originale o copia, poco importava: bastava che parlasse la lingua del prestigio, del sapere, della virtù.

Naturalmente, non mancavano i casi di "libere interpretazioni" — o, per usare un termine moderno, di pasticci: come nel caso di alcune repliche del Pothos di Skopas, in cui l’opera fu duplicata in modo speculare per creare composizioni decorative da parete, del tutto estranee all’intenzione dell’artista originario. Ma proprio in questa libertà di manipolazione si rivela un altro volto dell’arte romana: quella capacità tutta romana di piegare il passato al presente, l’estetica al contesto, l’arte alla vita.

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