Arte delle origini e della monarchia

Alle origini di Roma, molto prima che sorgessero archi trionfali, colonne istoriate e ritratti in marmo dei potenti, c’era una città di guadi e colline, sospesa tra mito e fiume. La leggenda vuole che Roma sia nata il 21 aprile del 753 a.C., ma prima ancora di quel giorno fatidico, il destino della città era già scritto nel suo paesaggio: un punto di passaggio sul Tevere, vicino all’Isola Tiberina, che univa e separava Etruschi e Latini. Un approdo naturale, l’Emporium, tra Palatino e Aventino, diventò cuore pulsante di traffici, incontri e – presto – di espressione artistica.
Eppure, parlare di “arte romana” in questa fase è forse prematuro. Nell’età protostorica e monarchica, Roma era ancora una giovane città in formazione, e la sua arte non aveva ancora una voce autonoma. Era un’arte “a Roma”, non ancora “di Roma”: un crogiolo di tradizioni italiche, etrusche, latine, a tratti quasi orientali, che si contaminavano a vicenda.
Tra i primi testimoni tangibili di questa fioritura arcaica c’è il tempio rinvenuto nell’area di Sant’Omobono, nel Foro Boario, non lontano dall’approdo fluviale. Siamo tra la fine del VII e la metà del VI secolo a.C.: i resti ci parlano di una continuità di vita e culto che attraversa tutto il periodo regale, come un filo teso tra le case in fango e i primi santuari.
Ma è sotto il regno di Tarquinio Prisco, uno degli ultimi re, che Roma comincia davvero a pensare in grande. Sul Campidoglio si eleva il tempio della triade capitolina, dedicato a Giove, Giunone e Minerva: un’opera gigantesca per l’epoca, costruita nel 509 a.C., proprio l’anno in cui – secondo la tradizione – finisce la monarchia e nasce la Repubblica. Il tempio era monumentale: un alto podio, tre celle affiancate, colonne imponenti sul fronte. Era un’architettura tutta etrusca, e anche le sculture che lo decoravano – realizzate in terracotta, forse dallo stesso artista dell’Apollo di Veio, lo scultore Vulca – parlavano la lingua plastica di una cultura che Roma ammirava e imitava.
Non si trattava solo di templi: tra le imprese titaniche dell’età arcaica spicca la Cloaca Maxima, un’enorme opera di ingegneria idraulica che permise di bonificare la valle del futuro Foro. Oppure le Mura Serviane, che proteggevano una città in espansione e delle quali restano ancora oggi tratti superstiti, incastonati nella trama della Roma moderna.
Eppure, bisogna attendere la fine del IV secolo a.C. per trovare un vero capolavoro figurativo “fatto a Roma” e firmato da un artista: la Cista Ficoroni, uno scrigno in bronzo cesellato con minuzia, decorato con scene del mito degli Argonauti. Un’opera raffinata, che racconta molto più di quanto sembri: è romana nella committenza, ma prenestina nella forma, osco-campana nel nome dell’artista (Novios Plautios), greca nella tecnica decorativa e nel soggetto. Una sintesi perfetta di quel mondo multiforme e meticcio che era l’antica Roma delle origini, ancora lontana dall’imperialismo, ma già ricca di visioni, scambi e promesse.
Roma, insomma, nasce sin dall’inizio come uno spazio di ibridazione: un luogo dove lingue, genti e stili si incontrano, si fondono e, lentamente, iniziano a dar vita a qualcosa di nuovo. A un’arte che, presto, sarebbe diventata davvero romana.
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