Il IV secolo

Il IV secolo fu un tempo sospeso tra due mondi: da un lato l’eco sempre più lontana della classicità, dall’altro i primi palpiti di una nuova sensibilità spirituale. Il potere imperiale non parlava più la lingua della misura greca, ma cercava immagini forti, simboliche, capaci di comunicare con immediatezza a una società che mutava in profondità.
L’Arco di Costantino (312-315 d.C.) è il monumento che incarna meglio questo cambiamento. A prima vista sembra un collage di stili: i raffinati bassorilievi del II secolo, presi da monumenti più antichi, convivono con sculture recenti dai tratti grossolani e innaturali, figure tozze, irrigidite in pose frontali. Ma questa apparente contraddizione è rivelatrice: è il segno di una frattura, un momento di passaggio, in cui Roma comincia a guardare oltre sé stessa.
Nell’Adlocutio scolpito sull’arco, l’imperatore è seduto al centro della scena, frontalmente, isolato nella sua maestà, affiancato da statue di Adriano e Marco Aurelio. Ma non è più un uomo tra gli uomini: è diventato un’icona sacra, una figura ieratica, ingrandita non per effetto della prospettiva, ma per il suo rango. È l’alba della gerarchia delle proporzioni, dove la grandezza fisica corrisponde a quella spirituale e politica, non a quella spaziale.
E lo spazio, infatti, non importa più. I rilievi mostrano monumenti del Foro – la basilica Giulia, l’arco di Settimio Severo, colonne e archi oggi scomparsi – ma sono disposti come scenografie piatte, allineate al piano della pietra, senza profondità, senza un “dove” credibile. Il mondo raffigurato non è più realistico, ma simbolico.
Ancora più sorprendente è l’uso della prospettiva ribaltata: i popolani che dovrebbero essere davanti alla tribuna dell’imperatore sono spinti ai lati, come se la scena si aprisse su di essi da più direzioni contemporaneamente. Non è errore, ma scelta narrativa, modo per rendere tutto visibile, tutto leggibile: la chiarezza del messaggio supera la fedeltà al reale.
Queste stesse caratteristiche si ritrovano in opere coeve come il famoso gruppo dei Tetrarchi, oggi murato nella basilica di San Marco a Venezia, dove quattro sovrani si stringono in un abbraccio rigido e identico, non individui ma ruoli, non uomini ma funzioni.
Per secoli, questa arte è stata bollata come decadenza. Ma oggi sappiamo che non era una regressione, bensì l’emersione di un’estetica diversa, nata nelle province, maturata lontano dai canoni classici, e ora giunta a Roma per plasmare il volto di un impero nuovo. Il centro non irradia più verso le periferie: è ora la periferia a irradiare verso il centro.
E con il Cristianesimo finalmente libero, grazie all’Editto di Milano del 313, una nuova arte prende forma. Non più templi pagani, ma basiliche grandiose si innalzano a Roma, in Terra Santa, a Costantinopoli. Le immagini cambiano, i simboli si moltiplicano, il linguaggio si trasforma. Nasce l’arte paleocristiana, figlia di un impero che sta lasciando alle spalle il mondo antico per entrare, lentamente, nell’età della fede.
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