domenica 9 febbraio 2025

Corso di storia dell'arte: 47 Costantinopoli e l'arte bizantina

Costantinopoli: la luce dell’eterno

C’era una volta una città che non voleva solo dominare il mondo: voleva rappresentarlo come lo vedeva Dio. Quella città era Costantinopoli, la Nuova Roma, voluta da un imperatore che sognava l’eternità: Costantino il Grande.

Era il 330 d.C. quando Costantino fondò la sua capitale sullo stretto del Bosforo, e con lei un’idea nuova di impero, di tempo, di bellezza. I templi si trasformavano in chiese, il foro in piazza dell’anima, e il marmo, l’oro, il mosaico diventavano strumenti per raccontare l’invisibile.

L’arte bizantina nasceva così: ieratica, sacra, luminosa. Nessuno spazio naturale, nessuna profondità: solo la trasparenza del divino, la luce che vince l’opacità del mondo. I mosaici non erano decorazione, ma rivelazione. Come scrivevano i pensatori del tempo, influenzati dal neoplatonismo, quell’arte era il cammino dello spirito: da materia opaca a luce assoluta.

La città degli imperatori e dei santi

Nel cuore della nuova capitale, il solo superstite silenzioso dell’epoca di Costantino è l’Ippodromo, un’enorme arena in cui il popolo si accalcava non solo per i giochi, ma per contemplare la presenza imperiale. Lì, l’imperatore si mostrava nella sua tribuna come un dio vivente, circondato dai simboli del potere e da un’aura che non era solo politica, ma mistica.

Poi venne Teodosio II, e con lui l’ambizione di rendere Costantinopoli una città inespugnabile e gloriosa. Fece costruire nuove mura ciclopiche, che ancora oggi resistono, e ampliò la città verso un destino che sembrava già scritto tra le stelle.

Ma fu nel VI secolo, sotto il genio politico e visionario di Giustiniano, che la città toccò la sua apoteosi. Roma era in rovina, ferita dalle invasioni barbariche. Alessandria e Antiochia, un tempo culle di cultura, erano in declino. Costantinopoli invece brillava come una seconda Gerusalemme, una città pensata per riflettere il regno dei cieli sulla terra.

La cupola che abbraccia il cielo

Nel 537 d.C. venne consacrata la Hagia Sophia, la chiesa della Santa Sapienza. Nulla del genere era mai stato costruito. La sua immensa cupola, sospesa quasi per miracolo sopra una vastissima aula centrale, sembrava galleggiare nella luce. Non era solo architettura, era teologia fatta pietra, l’immagine terrena della gloria celeste. Lì dentro, il fedele non camminava: fluttuava.

E accanto a lei, la chiesa dei Santi Sergio e Bacco, la Santa Irene, la ricostruzione dei Santi Apostoli: ogni pietra un’invocazione, ogni decorazione un canto.

Ma l’arte non restava chiusa nei confini della capitale. Gli artisti, provenienti da ogni angolo dell’Impero, accorrevano a Costantinopoli per imparare, per ammirare, per lasciarsi trasformare. Poi tornavano nei loro luoghi, e portavano con sé quella fiamma d’oriente. Così Bisanzio parlava attraverso i mosaici di Ravenna, le cupole della Grecia, gli affreschi nei monasteri dei Balcani, le icone fino a Kiev, alla Russia, all’Ucraina.

Le ombre del tempo

Molte meraviglie si sono perdute, inghiottite dalle guerre, dai terremoti, dalle mani distruttrici del tempo. Ma l’anima dell’arte bizantina vive ancora, tra tessere dorate, sguardi eterni e architetture sospese tra cielo e terra. Vive in ogni immagine che, rifiutando il mondo visibile, osa raccontarci l’invisibile.

Perché l’arte di Bisanzio non si limita a rappresentare. Essa rivela. E lo fa ancora oggi, con la voce luminosa di un impero che voleva essere specchio del Paradiso.


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