Ravenna

In un angolo d’Italia che pare sospeso nel tempo, Ravenna custodisce come uno scrigno incantato i frammenti preziosi di un’epoca in cui l’arte si fece preghiera, luce e mistero. Qui, tra le antiche pietre e le ombre silenziose dei suoi monumenti, vive ancora lo splendore di Giustiniano I, imperatore d’Oriente, e della sua corte, eternati per sempre in un mosaico d’oro e di fede.
È nella maestosa Basilica di San Vitale, dalla pianta ottagonale e dall’architettura audace, che l’eredità bizantina tocca il suo apice. L’edificio, con le sue sorprendenti somiglianze con la chiesa dei Santi Sergio e Bacco a Costantinopoli, ha spinto più di uno studioso a sospettare che sia opera della stessa mente geniale. Ma è l’interno che lascia senza fiato: un trionfo di marmi policromi, stucchi preziosi, capitelli scolpiti con grazia sovrumana… e poi loro, i mosaici. Veri e propri portali verso il divino, i mosaici raccontano l’epifania imperiale con solennità e sfarzo. Giustiniano, in porpora regale, affiancato dai dignitari; Teodora, regina ieratica, circondata da dame e simboli di potere. Ogni tessera d’oro riluce come una fiamma sacra, ogni volto sembra uscito da un sogno di eternità.
Qui l’arte bizantina si distacca con decisione dalla linearità paleocristiana e abbraccia la monumentalità ieratica. Le figure non cercano più l’illusione dello spazio: sono piatte, bidimensionali, quasi sospese, come se camminassero non sulla terra, ma nel regno dello spirito. Solo nei volti dell’imperatore e dell’imperatrice affiora un accenno di realismo, un barlume di umanità che non scalfisce però il loro ruolo semidivino, sancito da aureole incandescenti.
Anche nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo, lo spirito bizantino si manifesta in tutta la sua potenza simbolica. Lì, sfilano in processione martiri e vergini, tutti simili, tutti diversi: gesti ripetuti come formule liturgiche, abiti sontuosi come reliquie visive del sacro, sguardi fissi, volti ieratici. Nessun’ombra, nessuna prospettiva, solo l’oro abbagliante dello sfondo che trasfigura ogni scena in sacro eterno presente. Non c’è un piano d’appoggio, le figure non camminano: fluttuano, come spiriti santi, come visioni.
Ma è nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe che Ravenna chiude il suo canto d’oro. I mosaici qui abbandonano ogni eco naturalistica e si fanno simbolo puro. Un vescovo tra le pecore, un cielo stellato, una croce gemmata: tutto parla un linguaggio altro, una lingua di luce e di silenzio, dove lo spazio terrestre evapora nella contemplazione dell’invisibile. Non c’è materia, ma trasparenza; non c’è tridimensionalità, ma trascendenza. Lo scopo non è riprodurre la realtà, ma suggerire l’eterno.
A Ravenna, dunque, l’arte non è mai solo arte. È liturgia visiva, teologia in immagini, inno alla luce divina. E ancora oggi, chi entra in questi luoghi sente che qualcosa cambia: come se, per un attimo, si aprisse uno spiraglio sull’infinito.
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