Roma
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Roma. Il tempo sospeso tra rovine e visioni
Nel cuore dell’antica Roma, mentre gli archi trionfali scolorivano al sole e le colonne si spezzavano sotto il peso dei secoli, qualcosa si muoveva, silenzioso ma profondo. Era il tempo di Teodorico, re ostrogoto che regnava da Ravenna ma che, con occhi carichi di ammirazione e nostalgia, guardava verso la Città Eterna. Tra il 493 e il 526, Roma viveva un’insolita quiete, un’intercapedine nella storia in cui le guerre tacevano, ma i fasti imperiali svanivano come polvere tra le dita.
La città, orfana del suo splendore, si consumava in un lento degrado. Teodorico, affascinato dal mito dell’Urbe, ordinava che colonne e marmi venissero prelevati dagli antichi palazzi imperiali per adornare la sua capitale adriatica. Ma nel centro del Foro, tra le rovine dell’antico potere, accadde qualcosa di straordinario.
Fu Papa Felice IV, nel 526, a scuotere la pietra del tempo. Rompendo un silenzio edilizio che durava da più di due secoli, decise di erigere una nuova chiesa: i Santi Cosma e Damiano. Non un edificio qualsiasi, ma un’opera che univa memoria e fede, ricavata riutilizzando le strutture del Tempio della Pace e del vestibolo di Massenzio. In quel luogo carico di simboli, la nuova Roma cristiana s’innestava sulla carne viva della Roma pagana.
Nel catino absidale, un mosaico annuncia un’epoca diversa. Cristo, ieratico, scende verso lo spettatore da una cortina di fuoco e nuvole. La scena è quella della Parusia, la seconda venuta di Cristo, profetizzata nell’Apocalisse. A differenza del mosaico di Santa Pudenziana di un secolo prima, qui il divino si distacca dal reale, si fa visione, simbolo, luce. Non c'è più un racconto da illustrare, ma una verità da contemplare. Il fondo non è dorato: è un profondo blu cobalto, come il cielo dell’attesa.
La sua influenza fu duratura. Nei secoli successivi, e in particolare nella rinascenza carolingia, quel tema apocalittico si fece dominante, riemergendo nei mosaici di Santa Prassede e in molte altre chiese romane. Ma proprio in quegli anni, Roma stava per sprofondare nel suo punto più buio. Le guerre gotiche la devastarono e, nel 552, la città contava appena trentamila anime.
I bizantini, subentrati ai goti, iniziarono un lento lavoro di ricostruzione: mura, acquedotti, ponti. Ma anche il volto della città cambiava. I templi antichi venivano cristianizzati: il Pantheon, nel 609, fu consacrato a Maria; il Tempio della Fortuna Virile divenne la chiesa di Santa Maria in Gradellis. Dai palazzi imperiali emerse la chiesa di Santa Maria Antiqua, sepolta da una frana nell’847 e riscoperta soltanto nel Novecento. I suoi affreschi sono come pagine di un diario prezioso, che raccontano la transizione spirituale di Roma in quattro atti.
Nel primo, subito dopo la conquista bizantina, una Madonna col Bambino domina la nicchia centrale con la solennità ieratica dell’icona. Poi, tra il 565 e il 578, compare un’Annunciazione raffinata, vibrante di luce e movimento. Seguono, verso il 650, immagini più frammentarie: Santi Basilio e Giovanni, segni sparsi su pareti sovrascritte. Infine, sotto Papa Giovanni VII, greco d’origine e bizantino di spirito, la chiesa si popola di santi orientali, come San Gregorio Nazianzeno, dipinti con una maestria tale da far pensare a mani venute da Costantinopoli.
In questo tempo stratificato, l’arte romana perde la sua autonomia per intrecciarsi con il mondo bizantino. È un dialogo continuo, fatto di scambi e reciproche influenze. Da un lato, lo splendore ultraterreno delle figure isolate nel mosaico di Sant’Agnese fuori le mura, incastonate in un fondo dorato come reliquie viventi. Dall’altro, la sobrietà narrativa degli affreschi della Cappella di Teodoto a Santa Maria Antiqua, che parlano un linguaggio venuto dalla Siria o dalla Palestina.
Nel cuore del Laterano, la Cappella di San Venanzio – datata alla metà del VII secolo – riprende lo schema cerimoniale ravennate: un corteo di santi in parata, che riecheggia la fastosa corte di Giustiniano a San Vitale. E sopra tutto, nella cupola, la Vergine orante nel gesto silenzioso della Aghiosoritissa, icona di purezza e intercessione.
Di quell’epoca ci restano anche immagini rare e potenti: una Madonna del Pantheon datata 609, e la Theotókos di Santa Maria in Trastevere, con occhi fissi sull’eternità e colori accesi come fuochi liturgici. Sono icone sopravvissute al tempo, testimoni della tenace resistenza dell’arte e della fede, nell’Urbe che non smette mai di rinascere.
Roma, allora, non era più la capitale di un impero. Ma restava il centro del mondo, crocevia di memoria e speranza, di antichità e profezia, sospesa tra la pietra e l’eterno.
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