sabato 31 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 75 Taddeo Gaddi 1300

Taddeo Gaddi 1300




Taddeo Gaddi (1300 circa – 1366) è stato un pittore italiano del XIV secolo, appartenente alla famiglia Gaddi. Per il suo consistente operato nella bottega di Giotto ha sempre rivestito, tra i giotteschi della prima generazione, un posto di preminenza. Tuttavia questo ruolo ha sempre implicato una valutazione tutto sommato negativa della sua attività, quale eterno "allievo" e mai "maestro". Negli studi del secondo dopoguerra si è invece cercato di ridare il giusto rilievo alla sua figura, quale interprete a sua volta originale e ricco di spunti per le generazioni successive.Figlio di Gaddo di Zanobi detto Gaddo Gaddi, fu nella bottega di Giotto dal 1313 al 1337, anno della morte del maestro. Padre dei pittori Giovanni, Agnolo e Niccolò Gaddi, ebbe anche un quarto figlio, Zanobi, che non intraprese la carriera di artista, ma si diede con successo alla mercatura, contribuendo poi alla crescita economica e sociale della famiglia. Un quinto figlio fu Francesco. Taddeo fu probabilmente, come d'altra parte afferma il Vasari, il discepolo di Giotto con maggior talento o comunque quello che meglio riuscì a portare avanti lo stile del grande maestro. Nel 1347 è ricordato in testa a un elenco dei migliori pittori di Firenze. Tra le sue opere la più importante è il ciclo degli affreschi con Storie della Vergine nella Cappella Baroncelli della Basilica di Santa Croce a Firenze (1328-1338). Poco dopo dovette attendere anche alla pittura delle Formelle dell'armadio della sacrestia di Santa Croce, oggi alla Galleria dell'Accademia a Firenze, a Monaco di Baviera e a Berlino. In quest'opera prestigiosa dimostrò di aver messo a frutto gli insegnamenti di Giotto, disponendo con una notevole libertà narrativa le figure nelle scene, che risultano più affollate di quelle del suo maestro. Riprende inoltre la sperimentazione della prospettiva negli sfondi architettonici e giunge a risultati anche arditi, come nella scalinata obliqua e spezzata nella Presentazione della Vergine al tempio. Fu collaboratore, secondo alcuni, al Polittico Stefaneschi (Roma). Ancora sono da ricordare la Madonna (Berna), l'Adorazione dei Magi (Digione), le Storie di Giobbe (Pisa, Camposanto), La Madonna in trono col Bambino, angeli e sante (Firenze, Uffizi), la Madonna del Parto (Firenze), il Polittico (Firenze, Santa Felicita). Da Vasari gli viene accreditata anche la progettazione della ricostruzione del Ponte Vecchio, oggi messa in dubbio dagli studiosi, che si orientano verso Neri di Fioravante. Pur nell'ambito "giottesco", Taddeo Gaddi nelle opere più mature ha uno stile inconfondibile, con a volte effetti ricercati di luce notturna, quasi un unicum nella pittura trecentesca dell'Italia centrale. Gli impianti spaziali ricercati in alcune sue opere sono spesso maestosi e solenni, avvicinandosi in questo a Maso di Banco. I lineamenti dei volti delicati e morbidi sono indicativi dello sviluppo tardo dell'arte di Taddeo.Tra le fonti antiche che si occupano di Taddeo Gaddi ci sono Franco Sacchetti (Trecentonovelle, CXXXVI), Cennino Cennini (Libro dell'Arte), Lorenzo Ghiberti (Commentari) e Giorgio Vasari, che incluse una sua biografia nelle Vite. Lo stesso Cennini, in apertura della sua opera, chiarifica subito la sua diretta discendenza artistica da Giotto specificando che «Agnolo di Taddeo da Firenze [fu] mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre; il quale suo padre fu battezzato da Giotto e fu suo discepolo anni XXIIII». Quella che per Cennini è una rivendicazione della propria "patente" artistica (in polemica magari con i fratelli Orcagna, che andavano per la maggiore ma non potevano vantare una tale genealogia), col tempo si trasformò, innanzitutto proprio per Taddeo, come una pesante eredità del suo maestro, da tramandare e consegnare al figlio meno corrotta possibile[1]. A mettere cattiva luce sull'intero secondo Trecento fiorentino era stato anche la novella 136 del Sacchetti, in cui un gruppo di pittori e scultori fiorentini verso il 1360 si ritrova a cenare insieme sul colle di San Miniato al Monte, dopo aver prestato una consulenza artistica per stimare il lavoro di qualche collega. Andrea Orcagna, il parvenu, si arrischia a chiedere chi fosse il maggior pittore "da Giotto in fuori" (magari sperando che fosse proprio il suo nome a uscire), e i colleghi si prodigano in una serie di nomi, da Cimabue a Bernardo Daddi, da Stefano a Buonamico Buffalmacco, finché si decide di dare la parola al più anziano, Taddeo, quello che meglio aveva conosciuto il grande Giotto. La risposta dell'artista è lucida e lapidaria: «questa arte è venuta e vien mancando ogni dì»: cioè nessuno, in un panorama di decadenza progressiva. Filippo Villani paragonò Taddeo a Dinocrate e Vitruvio, facendo credere a Vasari che egli fosse stato anche architetto. Lo storico aretino gli assegnò così il ponte dei Frescobaldi, il Ponte Vecchio (dato oggi a Neri di Fioravante), la parte superiore di Orsanmichele e il completamento del campanile di Giotto: l'infondatezza di tali attribuzioni venne poi dimostrata da Gaetano Milanesi nel suo commento alle Vite[3]. Probabilmente l'affermazione del Villani («Taddeus insuper aedificia tanta arte depinxit, ut alter Dynocrates vel Victruvius qui architecturae artem scripserit, videretur») è solo da intendersi come un elogio della sua capacità nel disegnare l'architettura nelle sue opere. I primi contributi moderni alla critica su Taddeo Gaddi risalgono al Cavalcaselle, ad Adolfo Venturi (1907), a Van Marle, che seguirono fondamentalmente la posizione tradizionale di lodarlo come principale allievo di Giotto, ma senza considerarlo come maestro sufficientemente indipendente. In tale solco si mosse anche Pietro Toesca nell'opera Trece.

MASO DI BANCO

venerdì 30 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 74 Pietro Lorenzetti 1285 e Ambrogio Lorenzetti 1290

Pietro Lorenzetti 1285 e Ambrogio Lorenzetti 1290




I fratelli Pietro Lorenzetti (Siena, 1280/85 circa – 1348 circa) e Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa – Siena, 1348) sono stati due pittori italiani, tra i maggiori del Trecento italiano. Dopo Duccio di Buoninsegna e Simone Martini sono considerati la terza colonna portante del Trecento senese, ovvero di una delle scuole più importanti a livello europeo per il rinnovo della pittura. Dotati di uno stile elegante ed accattivante, a tratti ricco di spunti innovativi dalla realtà, ebbero una carriera prima comune e poi parallela. Pietro lavorò tra l'altro ad Assisi, mentre ad Ambrogio spetta il celeberrimo ciclo dell'Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo a Siena. La loro scomparsa, durante la peste nera, coincise con il crollo demografico, economico e sociale della crisi del Trecento: anche l'arte italiana subirà una sorta di eclissi, senza esponenti innovativi di primissimo rilievo fino alla ripresa del Rinascimento.

giovedì 29 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 73 Simone Martini 1285

Simone Martini 1285





Simone Martini (Siena  1280 e il 1285 - m. Avignone 1344). La sua personalità appare pienamente formata fin dalla prima opera documentata, l'affresco con la Maestà nel Palazzo pubblico di Siena, datato 1315 ma ritoccato, nella parte centrale, dallo stesso M. nel 1321 forse non solo per ragioni di restauro ma anche per un aggiornamento del gusto. La matrice duccesca, iconografica e stilistica, si piega nella sontuosità cromatica e materica, nelle cadenze ritmiche dei drappeggi, a una evocazione sottile dello spazio e del volume, in una felice sintesi dei valori sacri e civili esaltati dalle iscrizioni. Un documento napoletano (1317) attesta la concessione, da parte di Roberto d'Angiò, di un ricco appannaggio per un Simone cavaliere, probabilmente lo stesso M. che firmò la tavola (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) rappresentante S. Ludovico di Tolosa, canonizzato nel 1317, che incorona il fratello Roberto. La ieraticità della figura frontale del santo, contrapposta a quella di profilo di Roberto (rilevanti sono le sue caratteristiche fisiognomiche), la ricchezza del fondo d'oro e la profusione delle materie preziose che fanno da complemento alla raffinatezza cromatica invitano alla lettura dell'opera come manifesto di politica dinastica (legittimazione del trono di Roberto) e religiosa (reintegrazione di Ludovico nell'ortodossia francescana). Una ricerca spaziale più consistente e uniforme appare nelle storie del santo narrate nella predella con vivaci spunti naturalistici. Tra il 1317 e il 1319 (ma per alcuni critici tra il 1320 e il 1330) si colloca la complessa decorazione (vetrate e affreschi) della cappella di S. Martino nella basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi, a M. concordemente attribuita, espressione altissima di un mondo cortese e cavalleresco, in cui tenue è il confine tra laico e religioso. Nel polittico firmato che M. eseguì nel 1319 per la chiesa del convento di S. Caterina a Pisa (ora nel Museo nazionale di S. Matteo) l'apparente monotonia delle mezzefigure inquadrate da archi trilobati è superata dalla preziosità lineare e cromatica e dalla nuova e serrata impaginazione dell'insieme. Dal 1320 varî polittici furono prodotti da M. e dalla sua bottega, tutti di altissimo livello e dove è spesso difficile individuare l'intervento degli aiuti (Orvieto, Museo dell'opera del duomo; Boston, Isabella Stewart Gardner Museum; Cambridge, Fitzwilliam Museum). Numerosi documenti attestano i continui rapporti con il comune di Siena, e tra questi anche le commissioni di dipinti esaltanti la gloria della città nella conquista di varî castelli. Nel Palazzo pubblico, sulla parete che affronta la Maestà, l'affresco segnato dalla data 1328 mostra Guidoriccio da Fogliano, conquistatore di Montemassi, sull'ampio sfondo paesistico che presenta connotazioni astratte accanto a particolari di acuto realismo; la scoperta (alla fine degli anni Settanta) di un affresco, databile al 1314, nella parte inferiore della parete e in parte sottostante al Guidoriccio, ha sollevato dei dubbî sull'autenticità simoniana dell'opera. Della fiorente bottega di M. facevano parte il fratello Donato e soprattutto Lippo Memmi che firmò con lui una delle opere più celebrate dell'artista, l'Annunciazione per il duomo di Siena (Firenze, Uffizi), datata 1333 e considerata il punto più alto della raffinatezza e stilizzazione in chiave gotica del pittore. Del corpus di M. fanno parte due importanti opere la cui datazione è controversa: la pala del Beato Agostino Novello (1328 o 1333-36; Siena, S. Agostino) e il polittico Orsini (1333 circa o 1340 circa; Anversa, Mus. des Beaux-Arts: Arcangelo Gabriele, Vergine Annunziata, Crocefissione, Deposizione dalla croce; Louvre: Andata al Calvario; Berlino: Seppellimento di Cristo). Forse già dal 1336 M. è attivo ad Avignone: perduti gli affreschi per Notre-Dame-des-Doms (ne restano, però, le straordinarie sinopie) e il ritratto di Laura ricordato da Petrarca, di questo periodo sono il Ritorno di Gesù fanciullo dal Tempio o Sacra Famiglia (firmato e datato 1342; Liverpool, Walker Art Gallery), e il frontespizio miniato con l'Allegoria virgiliana di un codice appartenuto a Petrarca (Milano, Biblioteca Ambrosiana). Lontane dall'astrattezza raffinata dell'Annunciazione, anche se possono riflettere la particolare condizione ambientale alla corte di Avignone, queste opere ripropongono quella particolare tensione e sintesi tra mondo secolare e sentimento religioso che è alla base di tutta la sua produzione, in un linguaggio che partendo dalla lezione di Duccio elabora originalmente stimoli provenienti da Giovanni Pisano come dalle raffinate opere di oreficeria e di smalti oltremontani, ma anche le novità spaziali di Giotto e l'esperienza dei Lorenzetti, e che a sua volta diviene elemento importante nella formazione del gotico internazionale.

mercoledì 28 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 72 Giotto 1267

Giotto 1267







Giotto Di Bondone (forse ipocoristico di Ambrogio (Ambrogiotto), o Angiolo, Parigiotto, Ruggero (Ruggerotto), o ancora da Biagio, senza escludere l’ipotesi che Giotto possa essere un nome proprio), conosciuto semplicemente come Giotto (Colle di Vespignano, 1267 – Firenze, 8 gennaio 1337) è stato un pittore e architetto italiano. Secondo la maggioranza degli esperti, Giotto nacque nel 1267, a Vicchio. Tale ricostruzione si basa sulla verseggiatura che Pucci fece della Cronica di Giovanni Villani ed è piuttosto attendibile, salvo spostare la data di uno o due anni. Una minoranza della critica tende a porre la sua data di nascita nel 1276, secondo la cronologia che nella seconda metà del XVI secolo offrì Vasari nella biografia dedicata all'artista. La data fornita da Vasari sarebbe inattendibile qualora si tenga per assodato che Giotto doveva essere almeno ventenne attorno al 1290, quando dipinse le sue prime opere. Nacque a Colle di Vespignano, in quello che attualmente è il comune di Vicchio nel Mugello da una famiglia di piccoli possidenti terrieri (Bondone era appunto il padre)[5], famiglia che, come molte altre, si trasferì solo in seguito a Firenze. Secondo la tradizione letteraria, finora non confermata dai documenti, la famiglia aveva affidato il figlio alla bottega di Cimabue. I primi anni del pittore sono stati oggetto di credenze quasi leggendarie fin da quando egli era in vita. Giorgio Vasari racconta come Giotto fosse capace di disegnare una perfetta circonferenza senza bisogno del compasso, la famosa "O" di Giotto. Si narra inoltre che Cimabue avesse scoperto la bravura di Giotto mentre disegnava delle pecore con del carbone su un sasso, aneddoto riportato da Lorenzo Ghiberti e da Giorgio Vasari. Altrettanto leggendario è l'episodio di uno scherzo fatto da Giotto a Cimabue dipingendo su una tavola una mosca: essa sarebbe stata così realistica che Cimabue tornando a lavorare sulla tavola avrebbe cercato di scacciarla. Le novelle raccontano verosimilmente soprattutto la grande capacità tecnica e la naturalezza dell'arte di Giotto. Giotto si sposò verso il 1287 con Ciuta (Ricevuta) di Lapo del Pela. La coppia ebbe quattro figlie e quattro figli, dei quali uno, Francesco, divenne a sua volta pittore. Giotto s'adoperò perché un altro dei suoi figli, di nome anch'egli Francesco, divenisse priore della chiesa di San Martino a Vespignano, oltre che suo procuratore in Mugello, dove allargò le proprietà terriere della famiglia. Dette poi in sposa ben tre delle sue figlie con uomini nei dintorni del colle mugellano, segno inequivocabile di una sua fortissima "mugellanità" e dei profondi legami mantenuti dal pittore per tutta la vita col suo territorio d'origine. Recenti studi indicano come una dalle sue prime opere il frammento della Madonna conservato proprio in Mugello nella Pieve di Borgo San Lorenzo, databile intorno al 1290. La prima volta che Giotto venne ufficialmente nominato è in un documento recante la data 1309, nel quale si registra che Palmerino di Guido restituisce in Assisi un prestito a nome suo e del pittore. Giotto aveva aperto una bottega dove era circondato da alunni; si occupava soprattutto di progettare le opere e di impostare le composizioni più importanti mentre agli alunni lasciava quelle secondarie. Giotto superò la smaterializzazione dell'immagine, l'astrattismo propri dell'arte bizantina, si riappropriò magistralmente della realtà naturale di cui fu grande narratore, abile nell'organizzare le scene con realismo e nel creare gruppi di figure che dialogano fra di loro, inserite in uno spazio di cui egli ebbe grande padronanza aprendosi alla terza dimensione, cioè la profondità. Il naturalismo giottesco fa sì che i personaggi sono sempre caratterizzati da notevole espressività di sentimenti e stati d'animo, in una rappresentazione della figura umana resa con plasticità, con solido accento scultoreo. Giotto compie una profonda indagine dell'emozione umana, resa sempre con vivace realismo. Secondo altri studiosi la prima tavola dipinta indipendentemente da Giotto in ordine cronologico è invece la Madonna col Bambino di San Giorgio alla Costa (Firenze, oggi al Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte), che potrebbe essere anteriore agli affreschi di Assisi. Per altri, invece, si tratterebbe di un'opera successiva al cantiere di Assisi ed anche al Crocifisso di Santa Maria Novella. Tornando alla Madonna di San Giorgio, l'opera mostra una solida resa della volumetria dei personaggi le cui attitudini sono più naturali che in passato. Il trono è inserito in una prospettiva centrale, formando quasi una "nicchia" architettonica, che suggerisce il senso della profondità. La novità del linguaggio di questa tavola, relativamente piccola e decurtata lungo tutti i margini, si comprende meglio facendo un raffronto con gli esempi fiorentini di Maestà che lo avevano immediatamente preceduto, come quelli di Coppo di Marcovaldo e di Cimabue.

martedì 27 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 71 Duccio di Buoninsegna 1255

Duccio di Buoninsegna 1255





Duccio di Buoninsegna (Siena, 1255 circa – 1318 o 1319) è stato un pittore italiano, tradizionalmente indicato come il primo maestro della scuola senese.L'arte di Duccio aveva in origine una solida componente bizantina, legata in particolare alla cultura più recente del periodo paleologo, e una notevole conoscenza di Cimabue (quasi sicuramente il suo maestro nei primi anni di attività), alle quali aggiunse una rielaborazione personale in senso gotico, inteso come linearismo ed eleganza transalpini, una linea morbida e una raffinata gamma cromatica. Col tempo lo stile di Duccio raggiunse esiti di sempre maggiore naturalezza e morbidezza e seppe anche aggiornarsi alle innovazioni introdotte da Giotto, quali la resa dei chiaroscuri secondo una o poche fonti di luce, la volumetria delle figure e del panneggio, la resa prospettica. Il suo capolavoro, ovvero la Maestà del Duomo di Siena, è un'opera emblematica dell'arte del Trecento Italiano. «Duccio […] attese alla imitazione della maniera vecchia, e con giudizio sanissimo diede oneste forme alle sue figure , le quali espresse eccellentissimamente nelle difficultà di tale arte.» (Giorgio Vasari) Duccio, figlio di Buoninsegna, nacque probabilmente poco oltre la metà del Duecento, intorno al 1255. I primi documenti su di lui risalgono al 1278 e si riferiscono a pagamenti per copertine di libri contabili e per dodici casse dipinte destinate a contenere documenti del Comune di Siena. Tali opere sono oggi perdute. La prima opera di Duccio che è invece giunta fino ai nostri giorni è la cosiddetta Madonna Gualino che si trova oggi alla Galleria Sabauda di Torino (la provenienza originaria è ignota). Dipinta intorno al 1280-1283, riporta uno stile molto simile a quello di Cimabue, a tal punto da essere stata attribuita a lungo al maestro fiorentino anziché a Duccio. La tavola ricorda effettivamente le Maestà di Cimabue, nell'impostazione generale, nella forte derivazione bizantina e assenza di tratti gotici, nei tratti somatici della Madonna, nella veste del bambino e nell'uso dei chiaroscuri. Questa forte derivazione cimabuesca, che resterà evidente anche in opera successive seppure sfumando gradatamente, ha fatto pensare che ci fosse un rapporto di maestro-allievo tra il più anziano Cimabue e il più giovane Duccio. Tuttavia già in questa prima opera giovanile di Duccio ci sono elementi nuovi rispetto a Cimabue: una ricchezza cromatica che porta a colori che non appartengono al repertorio fiorentino (quali il rosa della veste del piccolo, il rosso vinato della veste della Madonna e il blu del suppedaneo), il naso a patatina del piccolo che rende il suo volto più dolce e fanciullesco, la matassa lanosa di crisografie bizantine della veste di Maria. Ma sono comunque dettagli. La tavola è decisamente cimabuesca. Nella successiva Madonna di Crevole del 1283-1284, che proviene dalla Pieve di Santa Cecilia a Crevole e che è oggi esposta al Museo dell'Opera della Metropolitana di Siena, si nota una maggiore divergenza rispetto allo stile di Cimabue. La Madonna ha un volto più dolce e raffinato, pur non tradendo un'espressione che rimane ancora seria e profonda. Permane il naso a patatina del piccolo che si lascia però andare anche ad un gesto affettuoso verso la madre. Agli stessi anni risalgono anche alcune pitture a secco, purtroppo molto rovinate, che si trovano nella Cappella Bardi (un tempo intitolata a san Gregorio Magno) della Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Si tratta di due pitture a secco nelle lunette in alto a sinistra e a destra della cappella e che raffigurano, rispettivamente, San Gregorio Magno tra due flabelliferi e Cristo in trono tra due angeli. Anche in questo caso non si può non notare la forte derivazione da Cimabue, ma è proprio l'eleganza dei volti degli angeli e la matassa fasciante della veste di Cristo in trono a farci apprezzare, di nuovo, il distacco dal maestro fiorentino.

lunedì 26 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 70 Giovanni Pisano 1248

Giovanni Pisano 1248





Giovanni Pisano (Pisa, 1248 circa – Siena, 1315 circa) è stato uno scultore e architetto italiano. Riuscì a sviluppare gli spunti del padre Nicola, confermando il ruolo preminente della scultura tra le arti figurative del XIII secolo, almeno fino al sorgere di Giotto. Diede alle sue statue forme slanciate ed elegantemente inarcate, ai rilievi un forte senso di movimento e di chiaroscuro, manifestando una forte espressività, senza tuttavia dimenticare mai una solida volumetria tipicamente italiana. Fu protagonista di alcuni dei più importanti cantieri della sua epoca, soprattutto a Pisa e a Siena, diventando uno degli artisti più influenti del XIV secolo. Durante gli anni in cui lavorò a fianco del padre collaborò alla decorazione scultorea del Battistero di Pisa e al Pulpito di Siena (1265-1269), anche se l'attribuzione delle diverse sculture è controversa. Ebbe un ruolo sicuramente più attivo nella Fontana Maggiore (1275-1278) di Perugia, dove firmò accanto al nome del padre le figure del registro superiore, pur nella totale incertezza delle attribuzioni, sono in genere riferite a Giovanni Pisano per la loro tendenza ormai esplicitamente gotica. Successivamente entrò a capo di progetti lasciati incompiuti dal padre: la decorazione esterna del Battistero di Pisa (statue del secondo registro e completamento del terzo e ultimo); e il Duomo di Siena, dove fu capomastro dal 1285 al 1296: qui allungò le navate di una campata, al termine della quale impostò la facciata monumentale; condusse i lavori della parte inferiore della facciata per la quale realizzò un gran numero di statue di Profeti e Sapienti dell'antichità. A Siena ottenne grossi riconoscimenti e benefici.Negli anni successivi lavorò al pulpito della chiesa di Sant'Andrea a Pistoia (1297-1301). Fu quindi a Pisa, dove assunse la carica di capomastro della cattedrale per la quale realizzò il pergamo, impegno che si protrasse dal 1302 al 1310 con interruzioni causate dai dissensi con il direttore dell'opera del duomo Borgogno di Tado. Più tardi, verso la conclusione della sua attività artistica, ricevette due importanti commissioni private: la Madonna col Bambino della Cappella degli Scrovegni di Padova (1305-06) e il Monumento sepolcrale di Margherita di Lussemburgo.

domenica 25 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 69 Arnolfo di Cambio 1245

Arnolfo di Cambio 1245












Arnolfo di Cambio, noto anche come Arnolfo di Lapo (Colle di Val d'Elsa, 1245 circa – Firenze, 8 marzo tra il 1302 e il 1310 circa), è stato uno scultore, architetto e urbanista italiano attivo in particolare a Roma e a Firenze alla fine del Duecento e ai primi del secolo successivo. Sulla famiglia e sulle origini di Arnolfo ben poche notizie certe sono giunte fino a noi. Sembra, comunque, figlio di Messer Cambio, notaio a Colle di Val d'Elsa, e di domina Perfetta. Arnolfo di Cambio si formò nella taglia (bottega) di Nicola Pisano e con lui lavorò all'Arca di san Domenico nella chiesa di San Domenico a Bologna (1264-67), al pulpito del Duomo di Siena (1265-1269). Dopo aver lasciato la bottega intorno al 1270, avendo acquisito un'autonomia professionale, si trasferì a Roma dove fu al seguito di Carlo I d'Angiò. Di questi anni sono il Ritratto di Carlo I d'Angiò (circa 1276, oggi presso il Palazzo dei Conservatori, Roma) forse il primo ritratto realistico di un personaggio vivente, e il monumento funebre del papa Adriano V a Viterbo. Nel frattempo (dicembre 1277) re Carlo gli consentiva di interrompere le sue prestazioni professionali per la Corte angioina e di recarsi a Perugia per la sistemazione della Fontana Minore di cui oggi restano solo numerosi frammenti scultorei presso la Galleria Nazionale. A metà degli anni ottanta realizzò il monumento funebre del cardinale De Braye, morto nel 1282, nella chiesa di San Domenico a Orvieto. Con questo complesso scultoreo-architettonico, oggi molto trasformato, Arnolfo inaugurò una tipologia sepolcrale usata in seguito fino al Rinascimento con il catafalco accostato alla parete e sormontato da un baldacchino scostato da due accoliti, coronato da una cuspide sostenuta da colonne tortili e decorata da pinnacoli, che conteneva i tre gruppi statuari minori, secondo un ritmo ascensionale che simboleggiava l'elevazione dell'anima verso il paradiso. A Roma l'artista era stato a contatto delle grandi opere del passato romano, e aveva assorbito le lezioni dei maestri cosmateschi, di cui riutilizzerà i partiti decorativi a intarsi di marmi colorati e vetri dorati nei ciborî della basilica di San Paolo fuori le mura (1285) e di Santa Cecilia in Trastevere (1293). Del 1289 circa è il monumento funebre del nipote del cardinale Annibaldi Riccardo Annibaldi (conservato presso San Giovanni in Laterano, Roma). In questo periodo lavorò a Roma per altre commissioni papali: monumento a papa Bonifacio VIII (1296), statua bronzea di San Pietro della Basilica di San Pietro (1300). Arnolfo realizzò probabilmente la prima rappresentazione plastica del Presepe, scolpendo nel 1291 otto statuette che rappresentano i personaggi della Natività ed i Magi; le sculture superstiti del primo presepe della storia, inizialmente inserite in una cappella dedicata alla Natività nella navata destra della Basilica di Santa Maria Maggiore; sono oggi collocate nella cripta della Cappella Sistina dal nome di papa Sisto V, sempre nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Negli ultimi anni del Duecento fu a Firenze, dove svolse probabilmente la sua attività essenzialmente come architetto e di urbanista. A Colle di Val d'Elsa, sua città natale, avrebbe realizzato i ponti di Spugna e di San Marziale, oggi scomparsi.

sabato 24 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 68 Cimabue 1240

Cenni (Bencivieni) di Pepo detto Cimabue 1240 



Cimabue, pseudonimo di Cenni (Bencivieni) di Pepo (Firenze, 5 o 19 settembre 1240 circa – Pisa, 24 gennaio 1302), è stato un pittore italiano. Si hanno notizie di lui dal 1272, e Dante lo citò come il maggiore della generazione antecedente a quella di Giotto, parallelamente al poeta Guido Guinizelli e al miniatore Oderisi da Gubbio. Secondo il Ghiberti e il Libro di Antonio Billi fu al contempo maestro e scopritore di Giotto. Vasari lo indicò come il primo pittore che si discostò dalla «scabrosa goffa e ordinaria […] maniera greca», ritrovando il principio del disegno verosimile «alla latina». A Cimabue spetta però un passo fondamentale nella transizione da figure ieratiche e idealizzate (di tradizione bizantina) verso veri soggetti, dotati di umanità ed emozioni, che saranno alla base della pittura italiana e occidentale. Fu un pittore di spregiudicata capacità innovatrice (si pensi agli espedienti con cui rese drammatica come mai prima di allora la Crocifissione ad Assisi, oppure all'incredibile inclinazione del Crocifisso di Santa Croce), che pur senza staccarsi mai dai modi propriamente bizantini, li portò alle estreme conseguenze, a un passo dal rinnovamento già perseguito in scultura da Nicola Pisano e in pittura poi da Giotto. Studi recenti hanno dimostrato come in realtà il rinnovamento operato da Cimabue non fosse poi assolutamente isolato nel contesto europeo, poiché la stessa pittura bizantina mostrava dei segni di evoluzione verso una maggiore resa dei volumi ed un migliore dialogo con l'osservatore. Per esempio negli affreschi del monastero di Sopoćani, datati 1265, si notano figure ormai senza contorno dove le sfumature finissime evidenziano la rotondità volumetrica. D'altronde lo stesso Vasari, cui tanto si deve nell'attribuzione a Cimabue dell'avvio della rinascenza della pittura italiana, afferma che egli ebbe "maestri greci". Le notizie certe, ossia suffragate da documenti, sulla vita di Cimabue sono molto esigue: presente a Roma nel 1272; incaricato di realizzare un cartone per il mosaico del catino absidale del Duomo di Pisa il 1º novembre 1301; morto a Pisa nel gennaio 1302. Da queste pochissime informazioni i critici e gli storici dell'arte hanno ricostruito, non senza controversie e incertezze, il catalogo delle opere. La data di nascita approssimativa si basa sulla menzione di Vasari e su un calcolo dell'età che doveva avere nel 1272, quando a Roma venne citato come testimone in un atto pubblico di notevole importanza, quindi verosimilmente sui trent'anni. In tale documento viene anche ricordato il luogo di nascita dell'artista, "Florentia", confermata anche nel documento pisano. Priva di riscontri la menzione di Giovanni Villani che l'artista si chiamasse "Giovanni" e Cimabue di cognome. Il documento di Roma, datato 8 giugno 1272 registra la testimonianza del pittore sul patronato che il cardinale Ottobono Fieschi assunse su incarico di papa Gregorio X di un monastero di monache di San Damiano che per l'occasione, fu ridedicato a Sant'Agostino e alla sua Regola. A Roma dovette conoscere l'arte classica e la scuola locale. La ricostruzione della cronologia delle opere basata su dati stilistici dalla recente e rigorosa analisi di Luciano Bellosi pone l'artista al lavoro a Firenze, Pisa e Bologna alla fine degli anni settanta e all'inizio della decade successiva. In questo periodo avrebbe realizzato, tra le altre opere, il crocifisso di Santa Croce, la Maestà del Louvre e i mosaici del battistero di Firenze. Gli anni ottanta dovettero essere il momento di massima popolarità dell'artista, con l'incarico di decorare transetto e abside della Basilica superiore di San Francesco, impresa realizzata tra il 1288 e il 1292 circa. Già dagli anni novanta il suo astro dovette iniziare ad essere oscurato da quello dell'allievo Giotto, come registrò la celebre menzione dantesca. Ci fu comunque spazio per un'opera celebre come la Maestà di Santa Trinita. Come già accennato, il 1 e il 5 novembre 1301 era a Pisa, dove firmò per l'esecuzione di una grande Maestà con storie sacre per la chiesa dell'ospedale di Santa Chiara, da eseguire in collaborazione col lucchese Giovanni di Apparecchiato, detto "Nuchulus": opera perduta o forse mai eseguita per la morte dell'artista. Il 19 marzo 1302 infatti, appena quattro mesi dopo, un documento fiorentino parla degli "eredi" di Cimabue riguardo a una casa nel popolo di San Maurizio a Fiesole. Il 4 luglio di quell'anno al camerlengo di Pisa vengono consegnati alcuni oggetti (i guanti di ferro, una tovaglia e altro) appartenuti al pittore, che quindi doveva essere morto mentre attendeva a un lavoro per il Duomo di Pisa, ovvero i cartoni per il mosaico nella calotta absidale.

venerdì 23 maggio 2025

Corso di Storia dell'arte: 67 Margaritone d'Arezzo 1240

Margarito o Margaritone d'Arezzo 1240




Margarito o Margaritone d'Arezzo (1240 circa – 1290) è stato un pittore, scultore e architetto italiano, probabilmente tra i massimi esponenti della pittura di Arezzo della seconda metà del XIII secolo, anche se le opere pervenuteci di quell'epoca sono solo una minima parte di quelle prodotte. Si trova citato solo in un documento del 1262, che è l'unica notizia sulla sua biografia, ma molte delle sue opere sono firmate. Talvolta si ipotizza (ad esempio lo stesso Roberto Longhi) anche una sua attività precedente alla metà del secolo, cosa che renderebbe estremamente importante la sua produzione. Altri invece, come ad esempio si evince dal primo paragrafo della Vita del Vasari, posizionerebbero la sua attività a dopo il 1260. Al riguardo, il Vasari scrisse "E, fra gli uomini che alla greca lavoravano, era tenuto eccellente Margaritone Aretino". Sicuramente nel periodo in cui visse, fu un artista apprezzato ed ebbe modo di lavorare sia ad Arezzo che nelle zone limitrofe. Forse l'opera più emblematica è la Madonna col Bambino di Santa Maria a Montelungo (1250?) dipinta su tavola e conservata al Museo statale d'arte medievale e moderna di Arezzo. La tavola segue una tipologia diffusa in area cristiano orientale, per esempio nella zona egiziana relativa al Monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai. Le due figure sono severamente frontali e bidimensionali, con il Bambino raffigurato come un dio infante, con tanto di scettro, che benedice ignorando il tenero gesto della madre che gli tocca il piedino. L'opera presenta un panneggio sofisticato ma privo di rilievo, con sfumature poco efficaci. In basso è firmata MARGARIT° DE ARITIO ME FEC[IT]. Tra le altre opere si cita Madonna col Bambino conservata in Santa Maria delle Vertighe, nella omonima località nei pressi di Monte San Savino. Ad Ancona Margaritone è noto come architetto e scultore: sono a lui attribuiti fin dal XVI secolo il Palazzo degli Anziani, compresi i bassorilievi della facciata alta, in parte ancora in situ e in parte esposti alla Pinacoteca Podesti e all'interno del palazzo stesso, quasi tutti eseguiti intorno al 1270. Altra opera anconitana attribuita a Margaritone è la cupola del Duomo, ma partire dal XX secolo questa ipotesi è stata messa in serio dubbio.


giovedì 22 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 66 Nicola Pisano 1223

Nicola Pisano 1223 



Nicola Pisano (1223 – 1281) è stato uno scultore e architetto italiano, tra i principali maestri della scultura gotica a livello europeo, che contribuì in maniera determinante alla formazione di un linguaggio figurativo "italiano". Il luogo della sua nascita è sconosciuto. Infatti, benché abbia ricevuto l'appellativo di "Pisano", è probabile che Pisa non fosse la sua città natale ma fosse di origine pugliese, dato che alcuni documenti lo indicano come "de Apulia", ossia proveniente dall'Italia meridionale (infatti con Apulia nel Medioevo si intendeva tutta l'Italia del sud). Possiamo presumere la sua provenienza dal sud anche dalla possibile formazione nella scuola foggiana di architettura e scultura di Federico II che nel Duecento fu un centro importante a livello europeo per l'introduzione di nuovi moduli stilistici protorinascimentali, che rivoluzionarono l'arte in Toscana. Alcuni esempi sono visibili oggi nel primo ordine della facciata della Cattedrale di Foggia e sono presenti elementi geometrici e archi decorati con motivi pisani, identici a quelli presenti nel Duomo di Pisa che potrebbero testimoniare la formazione del "Pisano" a Foggia. Si è giunti quindi alla conclusione che Nicola nacque molto probabilmente nel Meridione e si stabilì a Pisa, forse per volontà di Federico II, dove prende il suo nome e dove nacque suo figlio, Giovanni, altro grande scultore del XIII secolo. All'epoca la Toscana era interessata da molteplici influenze provenienti dal mondo bizantino (tramite i commerci di Pisa), dall'Emilia e dal Meridione d'Italia. In particolare a metà del Duecento la situazione venne animata dall'apertura di due cantieri voluti da Federico II, il Castello di Prato e l'Abbazia di San Galgano, ai quali parteciparono artisti già impegnati nei precedenti cantieri nel Sud-Italia (lo testimoniano per esempio i leoni del portale del castello pratese identici a quelli a Castel del Monte). Questi maestri avevano già manifestato influenze gotiche nordeuropee, interesse per i modelli classici e attenzioni alla resa naturalistica delle cose e forse Nicola "de Apulia" fu uno di questi artisti. Non è stata comunque rintracciata alcuna opera né alcuna traccia archivistica di Nicola prima del suo arrivo in Toscana, databile con le prime opere al 1247. A quell'epoca Nicola era già a capo di una bottega molto ampia e ramificata, con un grande numero di aiutanti alle sue dipendenze.

mercoledì 21 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 61 Benedetto Antelami 1150: lo scultore che traghettò l’Italia dal Romanico al Gotico





Benedetto Antelami: lo scultore che traghettò l’Italia dal Romanico al Gotico

Nel cuore del XII secolo, quando le cattedrali d’Europa si innalzavano come Bibbie di pietra e la fede cercava nuove forme espressive, emerse la figura di Benedetto Antelami, scultore e architetto raffinato, capace di traghettare la cultura figurativa italiana dal linguaggio possente del Romanico alle prime eleganti inflessioni gotiche.

Nato intorno al 1150, forse nella Valle d’Intelvi, area montana di maestri comacini e lapicidi erranti, Antelami si formò verosimilmente in Provenza, dove la scultura monumentale aveva già abbracciato una maggiore scioltezza narrativa e un gusto per il dettaglio naturalistico. La sua prima opera firmata, l’altorilievo della Deposizione dalla Croce (1178), campeggia nel duomo di Parma e rivela un autore già maturo, capace di fondere pathos e ordine, ieraticità e sentimento.

Ma la grande impresa della sua vita è un’altra: il Battistero di Parma. Iniziato nel 1196, è uno degli edifici-simbolo del passaggio tra epoche. Antelami ne fu non solo lo scultore, ma probabilmente anche il progettista architettonico. La struttura ottagonale in marmo rosa, ispirata a modelli lombardi e francesi, ospita un programma iconografico complesso e coerente: nei tre portali esterni, nelle lunette interne, e soprattutto nel ciclo dei mesi e delle stagioni, distribuito lungo la galleria inferiore, si dispiega un cosmo ordinato dove il tempo umano si intreccia con quello liturgico e celeste.

L’arte di Antelami è filtrata attraverso un gusto classico: i suoi personaggi sono costruiti con attenzione anatomica, scolpiti con linee fluide e volumi pieni, come se parlassero ancora il linguaggio dell’antichità. Ma al tempo stesso, gli abiti ondeggianti, le espressioni meditate, la ricerca di profondità lo avvicinano già al Gotico nascente, che in Italia proprio grazie a lui inizia a fiorire.

Il suo stile influenzò a lungo la scultura del nord Italia. Si parla a ragione di "scuola antelamica", una galassia di allievi e seguaci che disseminarono le sue forme a Ferrara, Milano, Tivoli, Venezia. Tra le opere attribuite alla sua bottega o alla sua mano si ricordano: il rilievo equestre di Oldrado da Tresseno (1233) a Milano, l’arcone del portale maggiore di San Marco a Venezia, e una seconda Deposizione nel Duomo di Tivoli.

Antelami operò anche fuori da Parma: nel Duomo di Fidenza tra il 1179 e il 1218, e forse presso l’abbazia di Sant’Andrea a Vercelli (1219-27), dove le forme gotiche più spiccate fanno supporre un nuovo viaggio in Francia e un aggiornamento stilistico tardivo.

Quando morì, intorno al 1230, aveva cambiato per sempre il volto della scultura italiana. Benedetto Antelami non fu solo un ponte tra due mondi: fu il primo grande scultore italiano capace di unire il rigore del simbolo alla grazia del sentimento, gettando le basi per la stagione dell’arte gotica in Italia.


martedì 20 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 64 bis Wiligelmo 1050 ca.: lo scultore che raccontò la Genesi sulla pietra


 

Wiligelmo: lo scultore che raccontò la Genesi sulla pietra

Tra i capolavori che adornano il volto del Romanico italiano, pochi nomi risuonano con la stessa forza di Wiligelmo, maestro di pietra e racconto, tra i primi a firmare le proprie opere in un’epoca in cui l’artista spesso rimaneva nell’ombra. Il suo nome campeggia con fierezza sul marmo della facciata del Duomo di Modena, accompagnato da versi latini che ne esaltano l’ingegno: «Quanto tra gli scultori tu sia degno di onore, è evidente ora, o Wiligelmo, per la tua scultura».

Ma chi era davvero questo Wiligelmo? Forse lombardo, forse comasco come l’architetto Lanfranco, con cui collaborò all’ambizioso progetto della cattedrale modenese a partire dal 1099, fu protagonista assoluto della rinascita della scultura monumentale in Italia. Le sue opere raccontano, insegnano, emozionano: sono Bibbie scolpite nella pietra, pensate per un pubblico che non sapeva leggere ma sapeva guardare.

Il capolavoro che lo consacra è una serie di quattro lastre in marmo poste sulla facciata del Duomo di Modena, note come le Storie della Genesi. In esse, Wiligelmo narra la Creazione e il dramma dei primi uomini: Dio plasma Adamo, trae Eva dal suo fianco, assiste al peccato, scaccia i progenitori dall’Eden. Poi Caino e Abele, il cieco Lamech che uccide per errore, Noè e la salvezza nell’Arca. Le figure sono intensamente umane, colte in gesti essenziali, ma pieni di pathos. Non c’è paesaggio: solo un mondo simbolico, costruito con pochi accenni — una roccia curva per il fiume del Paradiso, un albero come confine tra bene e male.

Wiligelmo non cerca il naturalismo classico, né si rifugia nell’astrazione bizantina. La sua arte è concreta, sintetica, emotivamente accessibile, pensata per parlare alle masse. Eppure, in alcune sculture come i due Geni portafiaccola, la sua tecnica rivela una raffinatezza pari a quella degli antichi maestri, forse ispirata dai reperti romani venuti alla luce negli scavi modenesi.

Attorno a lui lavorano allievi talentuosi, anche se senza nome: gli studiosi li chiamano oggi Maestro di Artù, Maestro di San Geminiano, Maestro delle Metope. Le metope stesse — con chimere, sirene, mostri — un tempo poste all’esterno della cattedrale come contrafforti, oggi sono custodite nel Museo Lapidario di Modena, e testimoniano l’immaginazione visionaria della sua bottega.

Wiligelmo fu attivo anche a Piacenza, dove operò insieme a un giovane che diventerà celebre: Niccolò, autore dei portali di Ferrara e Verona. A Cremona, alcuni rilievi smembrati dal pulpito del Duomo sembrano portare la sua impronta. A Nonantola, gli stipiti del portale raccontano storie della Vergine e di Sant’Anselmo, ancora una volta teologia scolpita per tutti.

Le influenze? La critica ha segnalato similitudini con la scultura aquitanica, come nel chiostro di Moissac o nella basilica di Saint-Sernin a Tolosa. Eppure non si tratta di semplici imitazioni: Wiligelmo è figlio di un’epoca in fermento, dove circolano idee, tecniche, forme. La sua arte nasce da uno scambio, non da una dipendenza.

Il suo lascito è enorme: da lui discendono Niccolò e Benedetto Antelami, pilastri della scultura romanica italiana. Più che una bottega, quella di Wiligelmo fu una scuola — e più che uno scultore, fu un narratore della fede, capace di trasformare il marmo in storia, visione, emozione.


lunedì 19 maggio 2025

Corso di storia dell'arte: 14 POLICLETO


 

Policleto, il Maestro dell'Armonia

L'arte come perfezione: il genio di Policleto

Nel cuore del V secolo a.C., in un'epoca di straordinario fermento artistico e culturale, visse e operò uno degli scultori più influenti dell'antichità: Policleto. Nato ad Argo, fu non solo un abilissimo scultore e bronzista, ma anche un teorico rivoluzionario dell'arte. Le sue opere, purtroppo perdute, ci sono note grazie alle numerose copie romane che testimoniano la sua fama e il suo impatto sulla scultura successiva. Policleto non si limitò a scolpire corpi perfetti, ma cercò di codificare l'armonia e la bellezza attraverso un rigoroso sistema di proporzioni, il celebre **Canone**.

Il Doriforo: l'ideale di bellezza reso materia

Tra le sue creazioni più celebri, il **Doriforo** rappresenta l'apice della ricerca policletea sull'equilibrio e la simmetria. Questa statua, raffigurante un giovane atleta che porta una lancia sulla spalla, non è soltanto un'opera d'arte, ma una dimostrazione concreta delle teorie dello scultore. Policleto portò a compimento le ricerche sui movimenti del corpo già avviate dagli scultori protoclassici, come Crizio, e trasformò tali intuizioni in un principio universale: l'armonia delle parti tra loro e rispetto al tutto. L'inclinazione del busto, la contrapposizione tra arti in tensione e arti rilassati, il bilanciamento del peso: tutto concorre alla creazione di un'opera che sembra vivere, respirare, esistere in uno spazio reale.

Il Canone: la matematica della bellezza

Policleto non fu solo uno scultore, ma anche un teorico dell'arte. Egli mise per iscritto la sua concezione della scultura nel **Canone**, un trattato che purtroppo è andato perduto, ma di cui ci restano frammenti tramandati da autori successivi. In esso, l'artista stabiliva precise regole proporzionali basate su multipli e sottomultipli, per definire l'ideale estetico del corpo umano. La sua ricerca si fondava sulla convinzione che la bellezza non fosse soggettiva, ma il risultato di rapporti matematici perfetti, dove ogni parte del corpo si relaziona armoniosamente con l'intero. Questo principio influenzò profondamente la scultura greca e, più tardi, anche l'arte rinascimentale.

Atene e la competizione con Fidia

Attivo nel Peloponneso fin dalla giovinezza, Policleto si trasferì ad Atene intorno al 440-430 a.C., quando era già uno scultore rinomato. Qui ebbe modo di confrontarsi con un altro gigante della scultura greca: **Fidia**. Sebbene i due avessero stili differenti, si influenzarono a vicenda. Policleto, con il suo rigore matematico e il suo amore per l'equilibrio, rappresentava l'ideale della perfezione formale, mentre Fidia, con le sue statue grandiose e ispirate, esprimeva una bellezza più solenne e divina. La loro rivalità artistica culminò nella celebre competizione per la realizzazione di una statua di amazzone per il tempio di Artemide a Efeso, alla quale presero parte anche altri grandi scultori dell'epoca.

L'Era di Argo: il capolavoro dimenticato 

Verso la fine della sua carriera, Policleto realizzò un'opera monumentale: la **statua crisoelefantina di Era** per il santuario di Argo. Questa scultura colossale, realizzata in oro e avorio, fu considerata il suo capolavoro e un diretto concorrente delle opere crisoelefantine di Fidia. Sebbene perduta, la sua immagine ci è giunta attraverso monete dell'epoca e la descrizione dello storico Pausania. Si ipotizza che la statua fosse alta circa otto metri e che fosse una delle più maestose creazioni della Grecia antica. Tuttavia, alcuni studiosi ritengono che questa opera possa essere stata realizzata dal suo omonimo, **Policleto II**, forse un nipote dell'artista.

La scuola policletea: un'eredità immortale  

L'influenza di Policleto non si fermò con la sua morte. Plinio il Vecchio menziona una scuola di artisti che seguirono le sue orme, molti dei quali lavorarono nei santuari di Delfi e Olimpia. La sua eredità si protrasse per generazioni, influenzando persino il grande scultore **Lisippo**, che operò nel IV secolo a.C. La scuola policletea contribuì a rendere più sfumate le differenze tra la scultura attica e quella peloponnesiaca, gettando le basi per lo sviluppo dell'arte classica e dell'ellenismo.

Il lascito eterno di Policleto  

Sebbene nessuna delle sue opere originali sia giunta fino a noi, il segno di Policleto è ancora vivo. Il suo Canone, le sue statue e la sua scuola hanno influenzato in modo incalcolabile la storia dell'arte occidentale. Le copie romane ci permettono di ammirare, seppur indirettamente, la sua visione della perfezione umana. Ogni volta che contempliamo una scultura classica caratterizzata da armonia e bilanciamento, possiamo riconoscere l'eco dell'insegnamento di Policleto, il maestro che rese la bellezza un'equazione perfetta.


Corso di storia dell'arte: Azcona 1988

Azcona 1988 Abel Azcona (Madrid, 1º aprile 1988) è un artista spagnolo specializzato in azioni artistiche. L'artista Abel Azcona durante...