lunedì 25 agosto 2025

Corso di storia dell'arte: Giacometti 1901

Giacometti 1901




Alberto Giacometti:
lo spazio della fragilità e l’esistenza scolpita

Alberto Giacometti (Stampa, Grigioni, 1901 – Coira, 1966) rappresenta una delle figure più complesse e influenti dell’arte del Novecento. La sua ricerca attraversa i grandi movimenti della modernità – dal cubismo al surrealismo, fino all’esistenzialismo – senza mai esaurirsi in un linguaggio definito, ma rinnovandosi in un dialogo continuo con la tradizione e con i drammi della condizione umana. La sua opera, spesso ridotta a una manciata di immagini iconiche – le figure filiformi che hanno segnato l’immaginario collettivo del dopoguerra – è in realtà un corpus stratificato, che comprende scultura, pittura, disegno, riflessione teorica e un fitto scambio con filosofi e scrittori.


Formazione e prime esperienze

Giacometti nasce in un ambiente artisticamente stimolante: suo padre, Giovanni Giacometti, è pittore postimpressionista, vicino a Segantini, e gli trasmette fin dall’infanzia l’amore per il disegno e il colore. Dopo gli studi presso la Scuola d’arte di Ginevra, compie un soggiorno formativo a Roma (1920-1921), dove scopre la scultura antica e rinascimentale, ma soprattutto la lezione di Giotto e di Tintoretto, che segneranno il suo modo di concepire lo spazio pittorico.

Il trasferimento a Parigi nel 1922 segna l’ingresso nell’avanguardia europea. All’Académie de la Grande-Chaumière studia con Antoine Bourdelle, allievo di Rodin, da cui apprende l’attenzione alla plasticità e alla monumentalità della figura. Parallelamente, frequenta l’ambiente cubista, elaborando tra il 1925 e il 1928 opere che destrutturano la forma in volumi geometrici, ponendo la questione centrale del rapporto tra scultura e spazio.


Il periodo surrealista

Nel 1929 Giacometti entra nel gruppo surrealista guidato da André Breton, realizzando objets e constructions-cages che mettono in discussione la funzione tradizionale della scultura. Opere come Boule suspendue (1930, Kunsthaus, Zurigo) o Palais à 4 heures du matin (1932-33, MoMA, New York) trasformano la scultura in dispositivo mentale: non più rappresentazione, ma evocazione di un mondo interiore e perturbante. Le strutture leggere e instabili, sospese nello spazio, alludono a dinamiche psichiche e relazionali, in sintonia con le teorie freudiane allora al centro della riflessione surrealista.

Tuttavia, l’artista non rimane a lungo confinato nelle poetiche oniriche di Breton. Il suo interesse per la figura umana – che il surrealismo tendeva a dissolvere nel flusso dell’inconscio – lo porta a un progressivo distacco dal movimento, fino all’espulsione nel 1935. È un momento di crisi ma anche di svolta: Giacometti riconosce che il centro della sua ricerca non può essere che l’uomo, nella sua irriducibile presenza fisica e spirituale.


La centralità della figura e l’incontro con l’esistenzialismo

Dalla seconda metà degli anni Trenta, Giacometti si concentra quasi ossessivamente sulla rappresentazione della figura umana. I suoi ritratti, realizzati spesso dal vero, testimoniano un’attenzione esasperata al rapporto tra osservatore e modello, come se l’atto stesso del vedere fosse impossibile da portare a compimento.

Durante la Seconda guerra mondiale, trascorsa a Ginevra, l’artista sviluppa le prime forme esili e filiformi che diventeranno la sua cifra stilistica. Nel dopoguerra, queste figure si affermano come icone universali: uomini e donne ridotti all’essenziale, quasi scheletrici, che si ergono nello spazio con una presenza fragile ma irriducibile. Opere come L’Homme qui marche o L’Homme au doigt (1947, Tate Gallery, Londra) incarnano l’angoscia esistenziale dell’uomo del Novecento, segnato da guerre, distruzioni e dalla sensazione di solitudine cosmica.

L’amicizia con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir contribuisce a collocare Giacometti al centro del dibattito filosofico esistenzialista. Nel celebre saggio La ricerca dell’assoluto (1948), Sartre interpreta le sue figure come la manifestazione plastica dell’“essere-per-sé”: corpi fragili, ridotti a segni nello spazio, eppure dotati di una densità ontologica che resiste alla dissoluzione.


Pittura e disegno: la fragilità come metodo

Parallelamente alla scultura, Giacometti coltiva la pittura e il disegno. Nei ritratti di amici, familiari e modelli occasionali, egli applica lo stesso principio di riduzione e precarietà: le linee si moltiplicano, cancellano e riscrivono la figura, come se l’immagine fosse sempre sul punto di svanire. Questo processo restituisce non soltanto un volto, ma l’atto stesso della percezione, con le sue incertezze e i suoi limiti.

In questo senso, Giacometti può essere visto come un anticipatore delle riflessioni fenomenologiche sullo sguardo: la figura non è mai data in modo stabile, ma si costruisce nella relazione instabile tra osservatore e osservato.


Riconoscimenti e fondazioni

Negli anni Cinquanta e Sessanta, Giacometti riceve riconoscimenti internazionali: nel 1962 vince il Gran Premio alla Biennale di Venezia, mentre nel 1965 gli viene conferito il Grand prix des arts de la Ville de Paris. Nonostante la celebrità, mantiene uno stile di vita austero, continuando a lavorare nel piccolo atelier parigino di rue Hippolyte-Maindron, simbolo della sua dedizione alla ricerca.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1966, la Kunsthaus di Zurigo ha istituito la Fondation Alberto Giacometti, che custodisce un ampio nucleo di opere, mentre a Parigi la Fondation Giacometti svolge un ruolo di riferimento per lo studio e la valorizzazione della sua eredità.


Confronti e influenza

Il linguaggio di Giacometti può essere messo in relazione con altri scultori del Novecento, come Henry Moore e Marino Marini. Se Moore esalta la pienezza organica della forma e Marini si concentra sull’archetipo del cavaliere, Giacometti radicalizza invece la fragilità della figura, riducendola a segno esile e quasi inconsistente. È proprio questa riduzione estrema a renderlo vicino alle sensibilità postbelliche e, successivamente, a influenzare artisti e movimenti della seconda metà del secolo, dal minimalismo al concettuale.

La sua influenza si estende anche oltre le arti visive: scrittori come Samuel Beckett hanno riconosciuto una consonanza tra le loro opere e la scultura giacomettiana, accomunate da un senso di vuoto e di ostinata resistenza dell’umano.


Conclusione

Alberto Giacometti ha lasciato un’eredità artistica che supera la specificità della scultura, divenendo una riflessione universale sulla condizione dell’uomo moderno. Le sue figure filiformi, intrise di solitudine e precarietà, sono insieme monumenti e reliquie: testimonianze di un’umanità ferita ma ancora capace di resistere. Nel confronto tra fragilità e permanenza, assenza e presenza, Giacometti ha saputo incarnare il dramma esistenziale del XX secolo, restituendo alla scultura un valore filosofico che ancora oggi conserva intatta la sua forza.


Bibliografia essenziale

  • Bonnefoy, Y. (1991). Alberto Giacometti. Biographie d’une œuvre. Paris: Flammarion.

  • Hapkemeyer, A. (2009). Alberto Giacometti: Scultura, pittura, disegno. Milano: Skira.

  • Lord, J. (1985). Giacometti: A Biography. New York: Farrar, Straus and Giroux.

  • Sartre, J.-P. (1948). La recherche de l’absolu. In Situations III. Paris: Gallimard.

  • Sylvester, D. (1994). Looking at Giacometti. New York: Knopf.

  • Weiss, J. (1995). The Art of Giacometti. New York: Harry N. Abrams.

  • Fondation Giacometti (a cura di) (2016). Alberto Giacometti: Retrospective. Paris: Éditions Gallimard.


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