La scultura gotica si mosse a partire dal ruolo che le era stato consegnato durante il periodo romanico, cioè quello di ornare l'architettura e istruire i fedeli creando le cosiddette Bibbie di pietra. Gradualmente la disposizione delle sculture nella costruzione architettonica divenne più complessa e scenografica. Gli episodi più importanti di scultura furono, come in età romanica, i portali delle cattedrali, dove vengono rappresentati solitamente i personaggi dell'Antico Testamento e del Nuovo Testamento. Un fondamentale passaggio è il fatto che nel periodo gotico le sculture iniziano a non essere più inglobate integralmente nello spazio architettonico ( lo stipite di un portale o un capitello...), ma iniziano ad affrancarsi venendo semplicemente addossate ai vari elementi portanti. Comparvero così le prime statue a tutto tondo, anche se non era ancora concepibile una fruizione delle medesime indipendente e isolata. Può darsi che fosse ancora latente il retaggio della lotta al paganesimo, che venerava statue a tutto tondo come divinità, comunque fino al Rinascimento italiano, le statue furono sempre collocate a ridosso di pareti, entro nicchie, sotto gli architravi o come cariatidi e telamoni. Da un punto di vista stilistico, i tratti innovativi della scultura gotica sono meno evidenti rispetto a quelli introdotti in architettura, ma non meno ricchi di conseguenze sugli sviluppi successivi della storia dell'arte. Se da una parte la figura si slancia notevolmente in lunghezza e il modellato vive di giochi totalmente nuovi come i virtuosistici e talvolta improbabili panneggi, dall'altro si tornò a rappresentazioni plausibili del movimento corporeo, delle espressioni facciali, delle fisionomie individuali, con un'attenzione dell'artista al naturalismo mai conosciuta in epoche precedenti, che negli esempi migliori (come nel portale della Cattedrale di Reims, del 1250 circa, o nelle opere di Nicola Pisano) arriva ad essere accostabile alla ritrattistica romana. Ciò è tanto più importante poiché precede di alcuni decenni gli stessi raggiungimenti in campo pittorico. Rispetto al classicismo comunque va rilevata una diversa inquietudine espressiva, una certa spigolosità delle forme e dei panneggi, un uso irrequieto degli effetti chiaroscurali. La scultura francese raggiunse il suo apogeo tra il 1150 e il 1250, per poi orientarsi verso raffigurazioni più lineari, astratte ed aristocratiche. I fermenti classici risvegliati dagli artisti d'oltralpe nel frattempo però attecchirono in Italia, dove proprio a partire dalla seconda metà del XIII secolo nascono importanti scuole scultoree in Emilia, in Puglia e in particolare in Toscana. Qui infatti si sviluppò prevalentemente l'opera di Nicola Pisano, del figlio Giovanni Pisano e dell'allievo Arnolfo di Cambio, che raggiunsero altissimi livelli di resa formale e drammatica nella narrazione dispiegata in opere come i pulpiti scolpiti del Duomo di Siena e di Sant'Andrea a Pistoia. La prodigiosa fioritura figurativa dell'arte del Duecento e del Trecento trova riscontro nelle correnti di pensiero (teologia e filosofia della Scolastica) e, più in generale, nella cultura del tempo. "L'ampiezza, la complessità e la coerenza interna dei grandi cicli decorativi scolpiti e affrescati appare in rapporto con la sistematizzazione del pensiero religioso, attuata dalla filosofia scolastica; e gli aspetti allegorici e simbolici hanno un corrispettivo nelle elaborate costruzioni enciclopediche della letteratura (valga per tutte l'esempio della Divina Commedia dantesca). L'attenzione alla natura, riscoperta nella realtà dei suoi aspetti e delle sue forme (dalle arti figurative e dalla lirica del Duecento e del Trecento), l'umanizzazione dei personaggi delle storie sacre, la ricerca di espressione e di interiorità nei volti (il rapporto tra la madre ed il figlio, ad esempio, nell'iconografia della Vergine che sorride al Bambino) sono tutti caratteri riconducibili ad una concezione generale che tende a conciliare il mondo fisico, terreno con il divino e il trascendente. Alla visione di un'umanità oppressa da un destino di fatica e di espiazione del peccato in un mondo ostile (arte romanica) si sostituisce quella di una fiducia nelle possibilità dell'uomo di conoscere la realtà e agire nel mondo, sempre in vista del raggiungimento di Dio". La conciliazione del mondo fisico con il trascendente è attuata nell'aristotelismo cristiano, il pensiero filosofico-teologico di Alberto Magno e del suo degno discepolo, Tommaso d'Aquino. Nella scultura gotica troviamo rappresentazioni non solo di personaggi ed episodi della Bibbia ma anche dei Mesi e delle Stagioni, dei Mestieri (lavori agricoli e artigianali), dei segni dello Zodiaco. Va altresì ricordato che nella letteratura medievale sono presenti molte figure mitologiche ed animali che sono allegorie di peccati, vizi e virtù (si pensi alla Commedia di Dante). Troviamo così anche nell'arte le rappresentazioni delle virtù cardinali (sapienza, giustizia, fortezza, temperanza) e virtù teologali (fede, speranza, carità), ma anche delle sette Arti liberali cioè le arti del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e le arti del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Sono altresì presenti figure fantastiche spesso da interpretarsi allegoricamente. Le fonti di queste fantastiche sculture sono molteplici: la mitologia greca e romana, il Physiologus (trattato di storia naturale moralizzata composto ad Alessandria d'Egitto alla fine del II secolo), i bestiari occidentali e quelli di origine orientale, il viluppo animalesco dell'arte dei barbari Germani (per esempio dei Longobardi) che a sua volta riprende i motivi dell'arte dei popoli delle steppe (Sciti). Molto frequenti sono le figure mostruose e fantastiche derivate dalla fusione di teste e membra umane e animali: sono i grilli e le drôleries derivati dalla glittica greca e romana nonché dalla libera reinterpretazione di motivi dell'arte islamica, indiana e cinese (ad esempio i diavoli con ali di pipistrello e creste di drago sono derivati dai draghi cinesi) Spesso appare l'immagine del pavone che è simbolo di immortalità. In base alla credenza secondo la quale il pavone perde ogni anno in autunno le penne che rinascono in primavera, l'animale è diventato simbolo della rinascita spirituale e quindi della resurrezione; inoltre i suoi mille occhi sono stati considerati emblema dell'onniscienza di Dio e le sue carni erano ritenute incorruttibili. Il gallo invece, che canta all'alba al sorgere del sole, è ritenuto simbolo della luce di Cristo. Frequenti sono anche i leoni stilofori.
venerdì 28 febbraio 2025
giovedì 27 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 60 Il volto del Divino: Gesù nell'immaginario romanico

Il volto del Divino: Gesù nell'immaginario romanico
Nel cuore delle chiese romaniche, tra le volte austere e le pareti cariche di affreschi, si staglia una figura imponente, solenne, assoluta: Cristo Re. Non è il Gesù mite e terreno che accoglie i peccatori con lo sguardo dolce, ma un Pantocratore, un sovrano dell’universo che giudica e domina, seduto in trono al centro dell’abside come in una sala del trono celeste.
Jacques Le Goff, grande interprete del Medioevo, ci guida a comprendere il perché di questa iconografia: il Cristo dell’arte romanica è prima di tutto Rex, re, più che Dominus, signore. Gli sono conferiti gli attributi della regalità assoluta: il trono, simbolo del comando; il sole e la luna, che gli ruotano intorno come servitori cosmici; le lettere alfa e omega, segno dell’inizio e della fine; i vegliardi dell’Apocalisse, testimoni eterni del suo potere; e a volte persino la corona, a suggellare la sua autorità divina.
Questo Cristo regale non è isolato. Egli è l’anima stessa dell’edificio sacro, che diventa palazzo del Re dei cieli. La sua posizione, spesso nell’abside o sotto una cupola, richiama le sale del trono delle antiche rotonde iraniane. L’architettura stessa si piega alla simbologia: ogni navata, ogni colonna è un omaggio al potere trascendente.
Accanto a questa figura solenne, però, esiste anche un altro volto del Redentore: Cristo crocifisso, ma non sconfitto. Anche quando il suo fianco è piagato e le membra distese sulla croce, il suo sguardo è fermo, vittorioso. È il Cristo triumphans, che domina la morte, che non conosce ancora il dolore umano del patiens, introdotto solo più tardi. È un Dio che regna anche nel sacrificio, che si offre ma non crolla.
La Chiesa, consapevole del potere delle immagini, fece di questo Cristo Re uno strumento di legittimazione del potere temporale. I re e gli imperatori dell’epoca si riconobbero in lui, ne adottarono i simboli, e a loro volta si fecero raffigurare come suoi rappresentanti terreni: sacri sovrani per diritto divino, in un'alleanza fra altare e corona che avrebbe segnato secoli di storia.
Eppure, l’immaginario cristiano non si esaurisce nel trionfo. All’interno delle chiese romaniche si affacciano altre icone del Cristo Uomo: il Buon Pastore che guida il suo gregge, il Dottore che insegna la verità, il Cristo cosmologico inscritto in una ruota, come nella celebre vetrata della cattedrale di Chartres, dove il sole stesso diventa aureola.
Queste immagini sono ricche di simbolismo naturale e sacro: il frantoio e il mulino mistico che schiacciano i frutti per generare vita eterna; la vigna e il grappolo d’uva, rimando eucaristico e parabola evangelica; il leone e l’aquila, segni di forza e maestà; il liocorno, creatura leggendaria simbolo di purezza assoluta; il pellicano, che secondo la leggenda nutre i propri piccoli con il proprio sangue, immagine struggente del sacrificio di Cristo; e la fenice, l’uccello che risorge dalle proprie ceneri, figura perfetta della resurrezione e dell’immortalità dell’anima.
Ogni immagine romanica di Cristo, che sia scolpita nella pietra o dipinta su un muro, non è solo arte: è teologia visiva, è dottrina scolpita per gli analfabeti, è emozione tradotta in forma. È il tentativo, grandioso e umile insieme, di dare un volto all’invisibile.
venerdì 21 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 59 Pittura romanica: l’arte che dà volto al sacro e voce all’eternità
Pittura romanica: l’arte che dà volto al sacro e voce all’eternità

Nel silenzio delle absidi, tra le navate che odorano di incenso e pietra, la pittura romanica prende vita come una rivelazione. È un’arte che non illustra, ma interpreta. Non imita il mondo, lo trasfigura. Tra la metà dell’XI e il XII secolo, in tutta l’Europa occidentale e centrale, si stende sui muri delle chiese come una luce misteriosa, capace di trasmettere verità profonde a una società che leggeva più con gli occhi dell’anima che con quelli della mente.
Non esiste un unico stile pittorico romanico, ma un mosaico di linguaggi regionali, uniti dallo stesso intento: rendere visibile l’invisibile. Come ha osservato lo storico Otto Demus, per comprendere la nascita di questa pittura occorre guardare più ai luoghi che alle date, più agli intenti che alle forme. Dal cuore della Germania fino ai monasteri della penisola iberica, ogni pennellata è una preghiera, ogni affresco una finestra sull’eternità.
In alcuni casi, come nelle abbazie alpine del Piemonte, sopravvivono testimonianze preziose dell’influenza bizantina. Gli affreschi della Novalesa, per esempio, mostrano figure ieratiche e spirituali, come quelle di San Eldrado o del più sorprendente San Nicola di Bari, in una delle sue prime apparizioni iconografiche in Occidente. Sono immagini cariche di mistero, che sembrano parlare dal fondo dei secoli con una voce ferma e severa.
Ma non tutto è rigidità: in alcune regioni, come l’Umbria, la pittura romanica si apre a un’espressività più viva. Gli affreschi della chiesa di San Pietro in Valle a Ferentillo raccontano le storie dell’Antico Testamento con forme più plastiche, quasi scolpite, che rivelano un gusto classicheggiante e una libertà compositiva inaspettata. In questi cicli, il passato biblico diventa presente emotivo, teatro sacro per gli occhi del fedele.
Contemporaneamente, sulle tavole lignee delle croci processionali o d’altare si sviluppa un’altra forma pittorica, più austera e simbolica. È qui che compare il Christus triumphans, il Cristo che domina la morte, impassibile e glorioso. Ma alla fine del XII secolo, anche questa immagine evolve: il volto di Cristo si fa sofferente, le membra si piegano, il dolore umano entra nella scena sacra con i Christus patiens, i Cristi morenti, segnando una svolta profonda nella spiritualità e nella sensibilità iconografica.
L’intero universo pittorico romanico è percorso da un pathos potente, una tensione che cerca l’essenza, che scolpisce il male e il bene con colori netti, contorni marcati, gesti teatrali. È un’arte che non teme l’oscurità: nei suoi affreschi dominano i tormenti dell’inferno, le tentazioni dei vizi, le visioni dell’Apocalisse, i Giudizi Universali che proiettano il destino dell’uomo nell’infinito.
Non c’è compiacimento nella pittura romanica, ma un'urgenza. L’urgenza di dire, di mostrare, di ammonire, di salvare. E in questo, ogni volto dipinto, ogni demone, ogni santo, ogni angelo è più che un'immagine: è una parola scritta con la luce.
giovedì 20 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 58 La scultura romanica: pietra parlante tra fede e meraviglia
La scultura romanica: pietra parlante tra fede e meraviglia

Nel cuore delle chiese romaniche, tra colonne massicce e portali solenni, prende vita una forma d’arte che è insieme fede, narrazione e stupore: la scultura romanica. Nata per accompagnare l’architettura, non per adornarla passivamente ma per esprimerne lo spirito profondo, questa scultura scolpisce la pietra con una voce potente, capace di parlare a tutti, non solo ai sapienti o ai monaci.
Le parole di Umberto Eco raccontano bene questa tensione tra sacro e sensibile: accanto alla trascendenza, alla verità rivelata, sboccia una nuova attenzione per il reale, per il visibile, persino per il bello. Non è un bello classico, né un bello pacificato: è un bello inquieto, popolato di mostri, di animali, di foglie che si arricciano nei capitelli, di uomini e santi scolpiti in pose rigide, eloquenti, eternamente in dialogo con chi li guarda.
La scultura romanica nasce nel silenzio dei chiostri, nei timpani dei portali, sulle lunette delle cattedrali. Si sviluppa a partire dall’XI secolo in molti centri europei: a Tolosa e Moissac, dove i portici raccontano l’Apocalisse con drammaticità teatrale; a Modena, dove il genio di Wiligelmo scolpisce il racconto della Genesi con una potenza visionaria e concreta; in Borgogna e nella Spagna settentrionale, dove si susseguono immagini di paradisi e inferni, vizi e virtù, figure grottesche e spirituali.
Ciò che cambia è anche il pubblico. Non più solo dotti teologi, ma mercanti, pellegrini, contadini. Il linguaggio della scultura si fa allora diretto, comunicativo, capace di parlare al cuore di chi non sa leggere, ma comprende il simbolo e la forma. Le scene sacre, tratte dal Vecchio e Nuovo Testamento, si popolano di volti espressivi e gesti eloquenti, perché la pietra diventa catechismo, predica, specchio dell’anima.
In Italia, oltre a Wiligelmo, si distinguono Nicholaus, attivo in molti cantieri tra Piemonte, Emilia e Veneto, e soprattutto Benedetto Antelami, il primo a lasciare la propria firma in un tempo in cui l’anonimato era la norma. La sua Deposizione del 1178, scolpita per un pulpito e oggi murata nel Duomo di Parma, è un capolavoro che unisce rigore compositivo e profondità spirituale. Anche il Battistero della stessa città, iniziato nel 1196, è una sua opera, custode di simboli, di stagioni, di mesi incisi con maestria. Intorno a lui si forma una scuola: scultori che portano avanti il suo stile, come il Maestro dei Mesi, autore delle decorazioni (oggi perdute) della Cattedrale di Ferrara.
La scultura romanica è un'arte della materia, sì, ma anche del messaggio. Ogni rilievo è una pagina scolpita di una Bibbia per immagini. Ogni volto è un racconto. Ogni arco, una narrazione che si apre tra la terra e il cielo.
mercoledì 19 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 57 Il Romanico: la pietra che racconta il risveglio dell’Europa
Il Romanico: la pietra che racconta il risveglio dell’Europa
C’è un tempo, nel cuore del Medioevo, in cui l’Europa inizia a risvegliarsi da un lungo torpore. È l’alba del Romanico, un’epoca che, dalla fine del X secolo fino all’affermarsi del Gotico, segna la rinascita dell’arte, dell’architettura, della fede e della società stessa.
In un’Europa ancora ferita da secoli di instabilità, comincia a germogliare qualcosa di nuovo: i villaggi si popolano, i commerci riprendono a scorrere lungo le antiche strade romane, i raccolti migliorano grazie a innovazioni come la rotazione triennale, la carruca e i mulini. Si costruisce, si sogna, si scolpisce. È un tempo di fermento: le città si allargano, nasce la borghesia, uomini e donne liberi iniziano a plasmare un nuovo ordine.
E l’arte, come sempre, si fa specchio di questo cambiamento. Non più una materia astratta e spirituale come quella bizantina, ma concreta, tangibile, scolpita nella pietra. L’opera romanica esalta la fatica dell’uomo, il suo lavoro, la sua intelligenza nel domare la materia opaca per renderla degna di Dio. Le chiese non nascondono la pietra: la celebrano. I muri spessi, le volte possenti, i capitelli scolpiti raccontano storie di santi e di peccatori, di mostri e di miracoli.
Il nome “romanico” compare solo secoli dopo. Fu lo storico inglese William Gunn, nel 1819, a riconoscere in queste opere un’eco dell’antico mondo romano, anche se reinterpretato in modo "imperfetto e fantasioso". Altri studiosi, come Adrien de Gerville e Arcisse de Caumont, iniziarono a distinguere le fasi di questa arte, che sbocciava diversa in ogni angolo d’Europa, ma sempre riconoscibile nel suo spirito.
Nel cuore del cambiamento, le abbazie diventano fari di rinnovamento: tra tutte, quella di Cluny, che osa costruire, in meno di un secolo, ben tre chiese, sempre più grandiose, fino all’imponente Cluny III, consacrata nel 1130. In queste mura, Dio non è solo evocato: è celebrato nella luce che filtra dalle absidi, nei ritmi solenni delle navate, nella gloria del lavoro umano.
La committenza cambia: non è più solo l’Imperatore o il vescovo a volere edifici monumentali, ma anche i signori locali, desiderosi di lasciare un segno tangibile della loro devozione, o forse del loro pentimento. Le donazioni diventano atti di fede e di prestigio. L’arte romanica è anche questo: espiazione scolpita nella pietra.
Ed è un’arte che viaggia. Le idee si muovono veloci, spinte dai passi dei pellegrini, dai traffici mercantili, dagli eserciti in marcia. Nasce così un linguaggio comune, con varianti locali, ma con lo stesso cuore: una fede profonda, una materia da plasmare, un’eredità romana da reinterpretare.
L’arco a tutto sesto, la colonna, la volta: elementi antichi, riemersi con nuova forza, usati per creare spazi che invitano alla contemplazione. Secondo Henri Focillon, fu proprio dall’arte bizantina di Ravenna che germogliò questo nuovo linguaggio, poi affinato nelle pievi della Romagna, fiorito in Francia e diffuso fino alla Spagna, all’Inghilterra, alla Germania.
Il Romanico è l’Europa che si scopre unita nella fede, ma anche nella tecnica, nella visione, nella volontà di costruire il proprio futuro pietra su pietra. È il Medioevo che smette di essere buio, e comincia a brillare.
martedì 18 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 56 La nascita della scultura nell'arte Paleocristiana
La nascita della scultura cristiana: dalle ombre delle catacombe ai fasti della fede
In principio fu il silenzio delle catacombe. Nel buio di quei corridoi sotterranei, illuminati appena dalle flebili luci delle lampade ad olio, comparvero le prime, timide espressioni pittoriche della nuova fede. Ma alla scultura — così sontuosa nei templi pagani — il Cristianesimo nascente non aveva ancora osato affidare la propria immagine. Troppo forte era il peso della tradizione che vietava ogni idolatria, troppo recente l'eco delle persecuzioni.
Eppure, lentamente, la scultura cristiana cominciò a germogliare, proprio là dove la morte sembrava avere l’ultima parola: nei sarcofagi. Furono le famiglie abbienti, convertite alla nuova fede, a chiedere per i loro defunti sepolcri decorati non più con miti pagani, ma con i simboli della speranza cristiana. Nei laboratori romani del IV secolo prese così forma un’arte nuova, che prendeva in prestito le tecniche e talvolta i temi della scultura funeraria pagana, ma vi innestava un’anima diversa.
Tra i simboli più amati spiccava il pavone: creatura maestosa che, secondo una credenza antica, rinnovava ogni anno il proprio splendore. I suoi mille occhi disseminati sulle piume parlavano dell'onniscienza divina; le sue carni, ritenute incorruttibili, divennero metafora potente della resurrezione.
I sarcofagi imperiali: Elena, Costantina, Stilicone
Le testimonianze più sontuose di questa arte nascente sono i sarcofagi di Elena e Costantina, madre e figlia del grande Costantino. Il sarcofago di Elena, sorretto da leoni scolpiti, racconta in realtà un'altra storia: non era stato pensato per lei, bensì per un uomo, come narrano le scene di battaglia che ne ornano il porfido rosso. L'arte qui si muove fra due mondi: quello aulico, raffinato, e quello più plebeo, privo di prospettiva e di profondità.
Diverso è il linguaggio del sarcofago di Costantina, conservato nei Musei Vaticani. Naturalistico, decorativo, il suo fregio di tralci e vendemmie riprende e amplifica le immagini della volta del mausoleo di Santa Costanza: la vita che trionfa, la fede che nutre.
Più a nord, nella basilica di Sant'Ambrogio a Milano, il sarcofago di Stilicone (oggi inglobato in un ambone medievale) racconta un'altra sfumatura della stessa speranza: Cristo, giovane e severo, siede su un trono, benedicente, con il libro della Legge tra le mani. L'iconografia del Cristo-giudice, che dominerà l'arte bizantina e medievale, affonda qui le sue radici.
Il Buon Pastore e i miracoli: una fede raccontata per immagini
Nel Museo Pio Cristiano di Roma, il cosiddetto Sarcofago del Buon Pastore illumina il cuore di chi lo osserva: attorno alla figura del Pastore, posta su un piedistallo, minuscoli angeli vendemmiatori si perdono in una trama fittissima di tralci di vite, scolpiti con audace uso del trapano. In questa foresta simbolica, i ceppi vecchi che si rinnovano parlano di resurrezione, i grappoli d'uva alludono al sangue di Cristo versato per la salvezza degli uomini.
Sempre nel museo, il Sarcofago con i miracoli di Cristo racconta, in uno svolgimento continuo, il peccato originale, il miracolo del vino, la guarigione del cieco, la risurrezione del morto. Cristo, giovane, imberbe, senza aureola, compare tre volte, identico e riconoscibile, come a suggellare la costanza della sua presenza nella storia della salvezza. Le figure, strette, sovrapposte, sembrano voler rompere i confini della pietra per raggiungere chi guarda.
Giunio Basso: il classicismo al servizio della fede
Un linguaggio più nobile e complesso emerge invece dal Sarcofago di Giunio Basso, vero capolavoro della scultura paleocristiana. Qui, sotto l'ordine rigoroso delle colonnine, dieci edicole racchiudono scene tratte dall'Antico e dal Nuovo Testamento. Ogni episodio è autonomo, denso di dettagli e di simbolismi, destinato a occhi colti, a menti allenate alla complessità. Il realismo dei volumi, la cura delle espressioni parlano di un mondo ancora profondamente intriso della cultura classica. Non è un caso: Giunio Basso era un dignitario di corte, convertitosi al cristianesimo in un'epoca in cui la fede nuova stava conquistando anche gli animi più raffinati.
La passione di Cristo: dolore e gloria scolpiti nella pietra
Nel IV secolo si diffonde una nuova iconografia: quella dei sarcofagi della passione. In uno di questi, il Sarcofago con monogrammi di Cristo, il monogramma sacro — Chi e Rho intrecciati — troneggia tra due colombe, sopra due soldati addormentati: il sepolcro è vuoto, la resurrezione è avvenuta. È una fede che si fa annuncio visivo, immediato e potente.
La porta di Santa Sabina: la fede scolpita nel legno
E poi, miracolosamente sopravvissuta ai secoli, la porta lignea della basilica di Santa Sabina a Roma. Risalente al V secolo, scolpita su legno di cipresso, essa è la più antica testimonianza della scultura lignea cristiana. Ventotto riquadri — oggi diciotto superstiti — raccontavano in origine la storia della salvezza: Mosè e Elia, i miracoli di Cristo, la sua crocifissione e l'ascensione.
Due mani diverse hanno lasciato il loro segno su quella porta: una elegante, di ispirazione classico-ellenistica; l’altra più umile, popolare, diretta. A quest'ultima appartiene il riquadro più sorprendente: la prima rappresentazione conosciuta di Cristo crocifisso tra i ladroni.
Qui non c'è prospettiva, non c'è ricerca di realismo: solo un'intaglio asciutto, essenziale, potente. Le croci sono appena suggerite dietro le teste e le mani, Cristo è più grande degli altri per affermarne la superiorità morale. Era un'immagine destinata alla plebe, scolpita non per stupire, ma per essere compresa, per colpire il cuore.
Conclusione
La scultura paleocristiana nacque fragile come una fiammella, nei sepolcri dei primi fedeli. Ma ben presto si fece fiamma alta, capace di plasmare pietra e legno in canti silenziosi di speranza, in visioni eterne di fede. E in ogni rilievo, in ogni figura, si può ancora oggi cogliere l'eco di un mondo che, nella luce nuova di Cristo, si stava risollevando dalle ombre dell'antico.
lunedì 17 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 55 La rappresentazione di Cristo nell'arte Paleocristiana
La rappresentazione di Cristo

Nei primi secoli del Cristianesimo, Cristo era un'idea più che un volto, un mistero più che una figura. Nessun pennello osava ancora tentare di imprigionare la sua immagine. In quel tempo, il Figlio di Dio si celava dietro simboli potenti e silenziosi: il Buon Pastore che portava sulle spalle la pecorella smarrita, l'Agnello immolato, la lampada accesa nel buio.
Fra questi emblemi si annidava anche una suggestione antica: il Cristo-Orfeo. Come il musico divino della mitologia greca era sceso nell'oltretomba per strappare Euridice alla morte, così Cristo era disceso nel Limbo per liberare le anime in attesa. L’eco dei miti antichi vibrava ancora, ma ora raccontava una redenzione nuova, una salvezza che spezzava per sempre il potere delle tenebre.
Tuttavia, il volto di Cristo rimaneva invisibile agli occhi dei fedeli. L'antico timore di tradire il mistero dell'Invisibile, sancito nei severi ammonimenti dell'Esodo, vietava di dargli fattezze umane. Questo silenzio dell'immagine durò fino a un momento decisivo: il Concilio di Nicea, nel 325.
Fu allora che la Chiesa, proclamando solennemente la duplice natura di Cristo, divina e umana insieme, sciolse le catene dell'aniconismo. Se Gesù era vero Dio e vero uomo, allora il suo volto poteva essere dipinto, il suo corpo raccontato, la sua vita raffigurata. E non solo per edificare i cuori dei credenti, ma anche per celebrare il potere nuovo che si irradiava dalla fede cristiana, specchiandosi nell'aurora dei primi imperatori battezzati.
Dopo l'Editto di Tessalonica, che aveva reso il Cristianesimo religione di Stato, l'arte divenne strumento di esaltazione: celebrare Cristo era celebrare l'Impero stesso, custode e difensore della nuova civiltà contro il caos dei barbari. Impero e Chiesa si fondevano, come due fiumi che, intrecciandosi, disegnano il paesaggio della storia.
I primi volti di Cristo che ci sono giunti raccontano una giovinezza serena: un Cristo imberbe, dai lineamenti dolci e luminosi, maestro tra i suoi apostoli come negli affreschi della catacomba di Domitilla o nei mosaici vibranti di luce della chiesa di Santa Costanza a Roma.
Ma presto la sua immagine mutò. Dalla tradizione siriaca, che raffigurava il filosofo cinico con barba e capelli fluenti, giunse un nuovo modello: il Cristo barbato, ieratico e maestoso, dallo sguardo che trapassava il tempo e il cuore degli uomini. Non più solo pastore o maestro, ma anche sovrano, Cristo prese a vestire le insegne regali.
Nei mosaici e negli affreschi, egli sedeva su troni dorati, circondato da angeli e santi, nell'atto solenne della traditio legis, la consegna della Legge. Come l'imperatore romano, che affidava ai suoi sudditi il diritto e l'ordine, così Cristo affidava all'umanità la nuova alleanza, fonte di verità e di salvezza.
Così, attraverso il lento evolversi dei volti e dei gesti, l'arte cristiana raccontava la più grande delle rivoluzioni: il Dio invisibile aveva un volto, e questo volto era quello di un uomo.
domenica 16 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 54 Pittura e mosaico Paleocristiani
Pittura e mosaico
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Nel grembo tumultuoso dei primi secoli cristiani, anche l'arte — pittura e mosaico — si trovò a nascere non dal nulla, ma attingendo linfa da radici antiche. Gli artisti, spesso inconsapevoli pionieri, presero a prestito forme, colori e simboli già familiari al mondo pagano o ad altre religioni, ma infusero loro un respiro nuovo, più profondo, capace di parlare alla fede nascente.
Si pensi, ad esempio, alla scena del banchetto: per secoli, nelle tombe romane, aveva celebrato il piacere terreno e il ricordo dei defunti. Ora, sulle pareti umide delle catacombe cristiane, quello stesso convivio si trasfigurava nell'Ultima Cena, divenendo il fulcro della nuova alleanza, l'immagine stessa dell'Eucaristia. Così, i gesti antichi si rinnovavano, e un banchetto non era più solo un pasto, ma la promessa della vita eterna.
In quei laboratori oscuri, fra i vapori dei colori e il fragore dei martelli, artisti pagani e cristiani sembrano talvolta lavorare fianco a fianco, inconsapevoli messaggeri di una metamorfosi storica. Le loro mani, abituate a scolpire dei olimpici o scene mitologiche, ora tracciavano il volto del Salvatore o l'ombra di un martire, senza mutare troppo l'impianto formale, come se l'arte, più veloce della teologia, già sapesse riconoscere l'universalità dei simboli.
Anche lo stile cambiava: dal realismo vivace delle prime raffigurazioni si passava via via a un linguaggio più semplice e simbolico, specchio di una società che, nel crepuscolo dell'Impero romano, cercava nuove certezze nei segni più che nelle immagini. Con l'editto di Costantino del 313 e la fine delle persecuzioni, le opere si fecero più fastose, ornate d'oro e di colori vividi, seguendo la stessa ricerca di magnificenza che pervadeva la pittura profana.
Eppure, l'anima dell'arte cristiana restava prudente: l'antico aniconismo, il divieto di raffigurare Dio, pesava ancora. Così gli artisti trovarono vie oblique per parlare del divino: il sole, l'agnello, il pesce — "ichthys" in greco, le cui lettere intrecciano il nome stesso di Cristo Salvatore. Ogni immagine era una soglia da varcare, un mistero da intuire più che vedere.
Accanto a questi simboli, apparvero figure che più che narrare, alludevano: il Buon Pastore, che sulle spalle portava la pecora smarrita, ereditato dalle delicate allegorie pastorali pagane; l'Orante, figura orante, simbolo di sapienza e purezza, che sembrava innalzarsi con le braccia verso il cielo invisibile. Persino il Cristo-filosofo, seduto nella calma dignitosa della riflessione, derivava da immagini antiche, come quelle del pensatore stoico Epitteto.
Anche le storie dell'Antico Testamento ritrovarono nuova vita, ma senza tradire le radici ebraiche da cui provenivano. Gli affreschi della sinagoga di Dura Europos, straordinario scrigno siriano oggi custodito a Damasco, ci raccontano di un'arte che cristiani ed ebrei praticavano fianco a fianco, in una stilizzazione che privilegiava il messaggio spirituale sulla descrizione realistica.
Col passare dei decenni, l'arte si distaccò sempre più dal mondo sensibile: le figure si fecero piatte, ieratiche, frontali. Il racconto visivo cedette il passo alla pura simbologia. Gli artisti non cercavano più di imitare la bellezza naturale, ma di aprire varchi verso il cielo, di annunciare con immagini semplici verità eterne.
Così, nei mosaici luccicanti delle basiliche, si combatteva una guerra silenziosa: il gallo, che canta all'alba, si opponeva alla tartaruga, lenta e viscida abitante del Tartaro, il regno oscuro del peccato. In quella lotta tra Bene e Male, incastonata nei pavimenti di Aquileia, ogni passo del fedele diventava un cammino attraverso i misteri della fede, un pellegrinaggio d’immagini verso la salvezza.
sabato 15 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 53 Arte Paleocristiana
L’arte paleocristiana: la luce nella penombra dell’Impero
Quando il cristianesimo mosse i suoi primi passi a Roma, si insinuò come un filo d’oro tra le trame stanche e consumate del grande impero. Era il tempo dei commerci febbrili e degli eserciti vittoriosi, ma anche delle crisi, delle paure, delle nuove domande sul senso della vita e della morte. In quel mondo antico in trasformazione, l’arte paleocristiana nacque come un sussurro sommesso, un linguaggio ancora incerto, ma capace di vibrare di speranza e di mistero.
Con il termine "arte paleocristiana" si designa l'intera produzione artistica dei primi secoli dell'era cristiana, racchiusa entro limiti di spazio e di tempo convenzionali. Le sue testimonianze più antiche, risalenti soprattutto al III e IV secolo, sono come semi gettati in un terreno ancora ostile, ma pronto a germogliare. L'arte cristiana primitiva non si imponeva con la forza dei monumenti imperiali, né cercava l'immediato splendore. Viveva piuttosto di segni nascosti, di messaggi cifrati, di simboli che si rivelavano solo a chi sapeva leggere con gli occhi della fede.
Nonostante la varietà dei luoghi e delle comunità, l'arte paleocristiana si muoveva ancora all'interno dell'orbita culturale e artistica di Roma imperiale. Si nutriva della linfa della tarda antichità, delle sue forme, dei suoi stili, per trasformarli lentamente, impregnandoli di un nuovo contenuto spirituale. Il suo momento più alto venne raggiunto fra i primi decenni del IV secolo e gli inizi del VI, fino al 604, l'anno della morte di papa Gregorio I. Con lui si chiude simbolicamente una stagione: il cristianesimo, da culto perseguitato, era ormai diventato la linfa vitale di un mondo che cambiava volto.
All'inizio, il cristianesimo a Roma si fece strada in silenzio. Giunse forse per via dei commercianti ebrei, che mantenevano vivi i legami con la lontana Palestina. Quando Paolo di Tarso, nel 61, giunse nella capitale dell’Impero, trovò una comunità già formata: piccola, discreta, ma tenace. Erano per lo più schiavi, poveri, artigiani; ma presto il messaggio evangelico cominciò a risuonare anche tra le famiglie più agiate, e queste ultime aprirono le porte delle proprie domus per accogliere le assemblee di fedeli.
Le domus ecclesiae erano semplici abitazioni private adattate a un uso liturgico, antesignane delle future chiese cristiane. I pochi resti archeologici che ne sono sopravvissuti — spesso nascosti sotto le fondamenta di grandi basiliche — ci raccontano di un culto domestico, raccolto, intessuto di parole sussurrate e gesti essenziali.
Con l'Editto di Costantino del 313, che sancì la libertà di culto per i cristiani, quelle piccole comunità sotterranee vennero alla luce. Ma già prima di allora, la fede cristiana aveva lasciato una traccia profonda, soprattutto nei luoghi della sepoltura. L’usanza di inumare i defunti, fondata sulla fede nella resurrezione dei corpi, diede vita a un vasto mondo sotterraneo: le catacombe.
Non furono certo solo le persecuzioni a spingere i cristiani nelle profondità della terra. Anche i pagani e gli ebrei utilizzavano ipogei funerari, come dimostra quello della via Latina a Roma, datato alla seconda metà del IV secolo. Tuttavia, nelle catacombe cristiane, la fede si fece arte. Le pareti buie vennero illuminate da immagini semplici ma potentissime: il Buon Pastore, l’ancora, il pesce, l'orante. Simboli universali che parlavano a chi aveva orecchie per intendere.
Già nel III secolo, Roma era organizzata in sette distretti, ciascuno con il proprio diacono e la propria area cimiteriale. La clandestinità imposta dalle autorità imperiali non soffocò la vitalità di questa comunità sotterranea: anzi, la rese più coesa, più intensa, più desiderosa di raccontare la propria fede con ogni mezzo possibile, persino attraverso l'arte.
Fu così che l'arte paleocristiana nacque e crebbe, nel cuore di un mondo che cambiava, come un'alba incerta ma inarrestabile. Dalle catacombe alle grandi basiliche costantiniane, dalle semplici pitture murali ai primi mosaici che brillavano come cieli stellati, il cristianesimo cominciò a costruire la propria immagine. Un'immagine che, pur attingendo alle forme della classicità, parlava un linguaggio nuovo: il linguaggio dell’eterno, del sacro, della speranza.
venerdì 14 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 52 Miniatura arti plastiche e arti suntuarie bizantine
Miniatura e arti plastiche: scultura e arti suntuarie
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Tra i codici più diffusi, spiccano i salteri: veri e propri scrigni di spiritualità illustrata, come il Salterio Khludov, oggi a Mosca, o quello di San Giovanni, un tempo a Costantinopoli. Seguono, nella loro maestosa varietà, gli omeliari — come il prezioso Coislin 79, che raccoglie le omelie di San Giovanni Crisostomo — gli Ottateuchi con i primi libri della Bibbia, gli Evangeliari e i Menologi, che raccontano la vita dei santi con una densità di immagini che pare prefigurare la narrazione cinematografica.
Ma tra tutti, un manoscritto brilla come una gemma preziosa nel tesoro della miniatura bizantina: il Codex Purpureus Rossanensis. Evangelario del VI secolo, scritto su pergamena tinta di porpora imperiale e illuminato con oro e argento, oggi è custodito a Rossano, in Calabria, come una reliquia della luce spirituale dell’Impero.
Se la pittura e la miniatura brillano nell’universo bizantino, la scultura, almeno quella lapidea, resta più in ombra. A differenza dell’Occidente, in Oriente la tridimensionalità fu guardata con sospetto. Le statue, da sempre associate al mondo pagano, gremivano ancora le piazze di Costantinopoli e alimentavano la diffidenza della Chiesa verso ogni forma che potesse evocare l’idolatria. Così la scultura si ritirò nei margini, relegata a una funzione decorativa, spesso al servizio dell’architettura. Le figure a tutto tondo furono rarissime, e la teologia bizantina, nella sua accanita lotta contro l’iconoclastia, dedicò ampio spazio alla difesa dell’immagine dipinta, ma quasi nulla alla scultura.
Eppure, quando la pietra veniva scolpita, i risultati potevano essere straordinari. A Pisa, sul portale maggiore del Battistero, una preziosa "taglia" bizantina — forse giunta direttamente da Costantinopoli nei primi decenni del XIII secolo — racconta, incisa nella pietra, una storia di incroci e contaminazioni tra mondi artistici.
Ma la vera anima plastica dell’arte bizantina si rivelò altrove: nelle arti suntuarie, nella lavorazione di metalli, smalti, cristalli e avori. Qui, l’artigianato divenne capolavoro. I reliquiari e gli arredi liturgici in metallo, finemente decorati, talvolta arricchiti da smalti policromi, parlavano di un’arte che sapeva piegare la materia al servizio della spiritualità.
E ancora più affascinanti erano gli avori: lastre scolpite con precisione minuziosa, capaci di restituire movimenti, espressioni e profondità narrative in pochi centimetri. Celebre tra tutti è l’Avorio Barberini, tra le opere più note dell’arte bizantina, mirabile esempio della fusione tra forza imperiale e delicatezza estetica.
In Italia, la vetta assoluta di questa arte è la cattedra vescovile di Massimiano, conservata a Ravenna. Risalente al VI secolo, è un trono scolpito in avorio che sembra appartenere a un altro mondo: figure bibliche, santi, e motivi ornamentali si intrecciano in un racconto visivo che unisce il potere della Chiesa alla maestria degli artigiani orientali.
Così, anche dove la pietra si fece muta, l’arte bizantina trovò nuove strade per parlare — con la luce dell’oro, la trasparenza degli smalti, e la carezza dell’avorio.
Se la pittura e l'arte del mosaico ebbero un ruolo centrale nell'arte bizantina, forse lo stesso non può dirsi della scultura lapidea. In particolare, a differenza di quanto non si osserva in occidente, la scultura non si emancipò dalla funzione decorativa architettonica, rarissime infatti sono le sculture a tutto tondo. Forse in questo fenomeno giocò un ruolo la diffidenza della cultura religiosa orientale verso la raffigurazione tridimensionale del sacro, associata al paganesimo a causa del grande numero di statue classiche accumulatosi a Costantinopoli. E del resto il ponderoso corpus teologale sviluppato sulla liceità e sul valore della rappresentazione sacra - elaborato dalle correnti iconodule nella disputa contro l'iconoclasmo - si occupa essenzialmente della produzione pittorica. Ciò non di meno anche in campo scultoreo i risultati qualitativi raggiunti furono molto elevati. Una testimonianza molto interessante di scultura lapidea bizantina osservabile in Italia si trova a Pisa. Qui infatti una "taglia" bizantina (si ipotizza direttamente proveniente da Costantinopoli) istoriò (inizi XIII secolo) il portale maggiore del battistero. Tutto ciò non significa però che le arti plastiche nel loro complesso fossero scarsamente coltivate. Se la scultura ebbe un ruolo minore (quanto meno rispetto ad altri campi) risultati altissimi, invece, vennero raggiunti nelle arti suntuarie, cioè nella lavorazione di materiali preziosi: metalli, avorio, pietre e cristalli. Le lavorazioni in metallo (reliquiari, arredi sacri) inoltre implicavano il frequente utilizzo di decorazioni in smalto, altra tecnica in cui l'arte bizantina raggiunse livelli qualitativi eccelsi. Celeberrime poi sono molte opere in avorio (come il cosiddetto Avorio Barberini, tra i più noti avori bizantini). Fu proprio nella lavorazione dell'avorio che la scultura bizantina raggiunse le sue vette. Tra le più alte lavorazioni bizantine in avorio che abbiamo in Italia si annovera la cattedra vescovile di Massimiano, a Ravenna, risalente al VI secolo.
giovedì 13 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 51 Pittura bizantina
Pittura

Nel mondo bizantino, dove l’arte era voce della fede e strumento della visione interiore, la pittura ad affresco si affiancò con pari intensità al mosaico, condividendone lo spirito e la tensione verso l’assoluto. Come il mosaico, anche l’affresco bizantino nacque da una radice classica — l’eredità ellenistica — ma questa venne trasfigurata, piegata alle nuove esigenze spirituali e religiose di un’epoca che guardava oltre l’apparenza sensibile.
Il tratto bizantino si affrancò presto dalla naturalità greco-romana per abbracciare una sacralità rigorosa, quasi ascetica. Le linee divennero più nette, le forme si fecero essenziali, le figure umane — immerse in campiture cromatiche dilatate e prive di sfumature — sembravano fluttuare in un tempo altro, al di fuori della storia. La frontalità delle composizioni, l’intensità fissa degli sguardi, la prospettiva schiacciata e simbolica: tutto contribuiva a creare un’arte che non rappresentava il mondo, ma lo trasfigurava. Un’arte che non illustrava, ma annunciava.
Purtroppo, del primo periodo bizantino non ci resta nessuna pittura murale. È solo dall’VIII secolo che emergono i primi lacerti visibili, come gli affreschi delle catacombe romane e quelli della chiesa di San Demetrio a Salonicco, frammenti preziosi di un discorso artistico già profondamente orientato verso la dimensione ultraterrena.
Ma sarà tra il X e l’XI secolo che la pittura ad affresco fiorirà in tutta la sua forza mistica. In Anatolia, le chiese rupestri della Cappadocia — scavate nella pietra e avvolte dal silenzio — custodiscono immagini che paiono sospese tra sogno e preghiera. In Grecia, a Salonicco, Kastoria e nella regione di Focide, l’affresco si fa canto teologico. A Bachkovo, in Bulgaria, e nella splendida Santa Sofia di Kiev, i colori narrano l’eterno attraverso un’estetica limpida e ieratica. E ancora, nell’isola di Cipro, spiccano gli affreschi della chiesetta della Panagia Phorbiotissa ad Asinou: un gioiello del XII secolo, dove la spiritualità bizantina si fonde con una sorprendente grazia narrativa.
L’Italia non fu estranea a questa corrente. Nel Meridione, soprattutto in Puglia e Basilicata, i monaci fuggiti dalle persecuzioni iconoclaste portarono con sé l’arte bizantina, affrescando chiese rupestri con scene sacre, visioni di santi, e icone dipinte direttamente sulla roccia.
Nei due secoli successivi, tra XIII e XIV, l’arte bizantina raggiunse nuove vette di delicatezza, irradiando la sua influenza oltre i confini dell’Impero. Gli affreschi dell’ex Iugoslavia, veri gioielli della cosiddetta rinascenza paleologa, rivelano una raffinatezza cromatica e una sensibilità narrativa che, secondo molti studiosi, influenzarono l’arte italiana della seconda metà del Duecento. In questo periodo fiorirono anche i cicli pittorici delle chiese cretesi, quelli di Argeș in Romania, e le decorazioni di Novgorod, dove operò il celebre pittore greco Teofane il Greco, maestro del grande Andrej Rublëv.
Ma nessun racconto sull’arte bizantina può dirsi completo senza parlare delle icone — non semplici dipinti, ma oggetti di culto, ponti tra il cielo e la terra. Le icone raffiguravano Cristo, la Vergine, i santi, le Dodici Feste della Cristianità, e potevano essere realizzate con tecniche diverse: encausto, tempera, mosaico, su tavola o su muro. Ogni icona era più di un’opera d’arte: era una presenza viva, una finestra sull’invisibile, un punto d’incontro tra fede e potere. Alcune icone, infatti, assursero a simboli dello stesso stato bizantino, protettrici della città e dell’Impero.
Il loro potere non si limitò ai confini orientali. Proprio grazie alla loro portabilità, le icone giunsero anche in Occidente, esercitando un’influenza decisiva sulla rinascita della pittura su tavola nel XII secolo, dopo secoli di prevalenza della pittura murale e della miniatura. Le pale d’altare e i polittici dell’arte medievale occidentale — secondo studiosi come Otto Demus — non sarebbero altro che adattamenti occidentali della struttura e funzione delle icone, modellati sulle esigenze liturgiche delle chiese prive di iconostasi.
Oggi, una delle più straordinarie collezioni di icone si conserva in un luogo remoto e sacro: il Monastero di Santa Caterina, sul Monte Sinai. In quel santuario di pietra e silenzio, si trova il celeberrimo Cristo Pantocratore del VI secolo — uno sguardo che, attraverso secoli e imperi crollati, continua a scrutare l’anima di chi osserva. Un frammento di luce eterna, impresso per sempre nel cuore dell’umanità.
mercoledì 12 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 50 Arte musiva bizantina
Arte musiva

Nel cuore scintillante dell’Impero Bizantino, dove l’arte si faceva preghiera e la luce diventava veicolo del divino, il mosaico emerse come espressione suprema del sacro. Come già era accaduto nel mondo romano di lingua latina, anche a Bisanzio questa tecnica, raffinata e complessa, divenne il linguaggio prediletto per parlare all’anima attraverso gli occhi. Con tessere vitree policrome — minuscoli frammenti di vetro incastonati con sapienza — gli artisti non solo decoravano, ma scolpivano la luce stessa, catturandola e restituendola in riflessi celesti.
Se città come Roma, Ravenna, Tessalonica, Napoli e Milano avevano scritto pagine gloriose nella storia del mosaico, fu a Costantinopoli, dalla metà del VI secolo, che questa forma d’arte raggiunse la sua piena consacrazione. Lì divenne non solo tecnica decorativa, ma visione teologica, poetica cosmica. Il mosaico bizantino non narrava semplicemente: trasfigurava. I personaggi sacri, privati ormai di peso e volume, si stagliavano in una dimensione astratta e ultraterrena, irradiati da colori accesi e sfumature irreali. Le figure perdevano la fisicità plastica dell’antico per divenire icone dell’eterno, proiezioni di un mondo che non era di questo mondo.
Uno degli esempi più mirabili di questa lirica della luce è custodito nella Basilica di San Vitale, a Ravenna. Qui, in un tripudio di ori e smeraldi, l’arte musiva bizantina del VI secolo offre uno dei suoi vertici assoluti: un canto visivo alla gloria imperiale e alla maestà divina.
Col tempo, le finalità narrative si ritirarono per lasciare spazio alla rappresentazione simbolica dei dogmi della fede. Dal IX secolo in poi, i mosaici non raccontarono più storie, ma incarnarono misteri: la redenzione, l’incarnazione, il trionfo celeste. La chiesa bizantina, ormai divenuta un microcosmo sacro, seguiva uno schema iconografico ben definito: nella cupola, Cristo Pantocratore dominava l’universo, circondato da angeli; nei pennacchi, i quattro Evangelisti, testimoni della Parola; nell’abside, la Madonna, ponte tra cielo e terra; lungo le navate, le scene evangeliche fondamentali si snodavano come un cammino di fede.
E nonostante le vicissitudini della storia, il mosaico sopravvisse ai secoli, attraversando tempeste iconoclaste e cambiamenti di gusto. Si mantenne sempre fedele alla sua essenza imperiale, e anche quando mutò forma e tono, non perse mai la sua maestosità. Testimonianze della sua longevità si trovano nei cicli musivi di Venezia e della Sicilia normanna, iniziati nel XII secolo con artisti direttamente chiamati da Costantinopoli. In queste nuove terre, il mosaico continuò a vivere, a risplendere, a raccontare l’invisibile.
Del periodo iconoclasta ci restano rare ma preziose testimonianze, come i mosaici sobri di Santa Irene a Costantinopoli. Ma fu nel XII secolo che apparvero opere di struggente bellezza: la Pietà nella Santa Sofia di Costantinopoli, il San Giorgio conservato al Louvre, e perfino le decorazioni della moschea di Omar a Gerusalemme, dove l’arte cristiana e islamica si sfiorano in un dialogo silenzioso.
Poi, come l’ultima luce prima del tramonto, il XIV secolo vide un nuovo fiorire del mosaico bizantino. I colori divennero più vividi, i volti più umani, le composizioni più intime e commoventi. È questo il tempo dei mosaici della chiesa di San Salvatore in Chora, a Costantinopoli, dove ogni tessera sembra sussurrare una preghiera, ogni riflesso vibra di misericordia, e l’eternità si fa carezza.
In questo lungo viaggio attraverso secoli e imperi, il mosaico bizantino non fu mai solo decorazione: fu visione, rivelazione, una porta aperta sull’infinito.
martedì 11 febbraio 2025
Corso di storia dell'arte: 49 Roma bizantina
Roma
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Roma. Il tempo sospeso tra rovine e visioni
Nel cuore dell’antica Roma, mentre gli archi trionfali scolorivano al sole e le colonne si spezzavano sotto il peso dei secoli, qualcosa si muoveva, silenzioso ma profondo. Era il tempo di Teodorico, re ostrogoto che regnava da Ravenna ma che, con occhi carichi di ammirazione e nostalgia, guardava verso la Città Eterna. Tra il 493 e il 526, Roma viveva un’insolita quiete, un’intercapedine nella storia in cui le guerre tacevano, ma i fasti imperiali svanivano come polvere tra le dita.
La città, orfana del suo splendore, si consumava in un lento degrado. Teodorico, affascinato dal mito dell’Urbe, ordinava che colonne e marmi venissero prelevati dagli antichi palazzi imperiali per adornare la sua capitale adriatica. Ma nel centro del Foro, tra le rovine dell’antico potere, accadde qualcosa di straordinario.
Fu Papa Felice IV, nel 526, a scuotere la pietra del tempo. Rompendo un silenzio edilizio che durava da più di due secoli, decise di erigere una nuova chiesa: i Santi Cosma e Damiano. Non un edificio qualsiasi, ma un’opera che univa memoria e fede, ricavata riutilizzando le strutture del Tempio della Pace e del vestibolo di Massenzio. In quel luogo carico di simboli, la nuova Roma cristiana s’innestava sulla carne viva della Roma pagana.
Nel catino absidale, un mosaico annuncia un’epoca diversa. Cristo, ieratico, scende verso lo spettatore da una cortina di fuoco e nuvole. La scena è quella della Parusia, la seconda venuta di Cristo, profetizzata nell’Apocalisse. A differenza del mosaico di Santa Pudenziana di un secolo prima, qui il divino si distacca dal reale, si fa visione, simbolo, luce. Non c'è più un racconto da illustrare, ma una verità da contemplare. Il fondo non è dorato: è un profondo blu cobalto, come il cielo dell’attesa.
La sua influenza fu duratura. Nei secoli successivi, e in particolare nella rinascenza carolingia, quel tema apocalittico si fece dominante, riemergendo nei mosaici di Santa Prassede e in molte altre chiese romane. Ma proprio in quegli anni, Roma stava per sprofondare nel suo punto più buio. Le guerre gotiche la devastarono e, nel 552, la città contava appena trentamila anime.
I bizantini, subentrati ai goti, iniziarono un lento lavoro di ricostruzione: mura, acquedotti, ponti. Ma anche il volto della città cambiava. I templi antichi venivano cristianizzati: il Pantheon, nel 609, fu consacrato a Maria; il Tempio della Fortuna Virile divenne la chiesa di Santa Maria in Gradellis. Dai palazzi imperiali emerse la chiesa di Santa Maria Antiqua, sepolta da una frana nell’847 e riscoperta soltanto nel Novecento. I suoi affreschi sono come pagine di un diario prezioso, che raccontano la transizione spirituale di Roma in quattro atti.
Nel primo, subito dopo la conquista bizantina, una Madonna col Bambino domina la nicchia centrale con la solennità ieratica dell’icona. Poi, tra il 565 e il 578, compare un’Annunciazione raffinata, vibrante di luce e movimento. Seguono, verso il 650, immagini più frammentarie: Santi Basilio e Giovanni, segni sparsi su pareti sovrascritte. Infine, sotto Papa Giovanni VII, greco d’origine e bizantino di spirito, la chiesa si popola di santi orientali, come San Gregorio Nazianzeno, dipinti con una maestria tale da far pensare a mani venute da Costantinopoli.
In questo tempo stratificato, l’arte romana perde la sua autonomia per intrecciarsi con il mondo bizantino. È un dialogo continuo, fatto di scambi e reciproche influenze. Da un lato, lo splendore ultraterreno delle figure isolate nel mosaico di Sant’Agnese fuori le mura, incastonate in un fondo dorato come reliquie viventi. Dall’altro, la sobrietà narrativa degli affreschi della Cappella di Teodoto a Santa Maria Antiqua, che parlano un linguaggio venuto dalla Siria o dalla Palestina.
Nel cuore del Laterano, la Cappella di San Venanzio – datata alla metà del VII secolo – riprende lo schema cerimoniale ravennate: un corteo di santi in parata, che riecheggia la fastosa corte di Giustiniano a San Vitale. E sopra tutto, nella cupola, la Vergine orante nel gesto silenzioso della Aghiosoritissa, icona di purezza e intercessione.
Di quell’epoca ci restano anche immagini rare e potenti: una Madonna del Pantheon datata 609, e la Theotókos di Santa Maria in Trastevere, con occhi fissi sull’eternità e colori accesi come fuochi liturgici. Sono icone sopravvissute al tempo, testimoni della tenace resistenza dell’arte e della fede, nell’Urbe che non smette mai di rinascere.
Roma, allora, non era più la capitale di un impero. Ma restava il centro del mondo, crocevia di memoria e speranza, di antichità e profezia, sospesa tra la pietra e l’eterno.
Corso di storia dell'arte: Azcona 1988
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