venerdì 31 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 37 Arte romana al tempo dei Flavi

I Flavi

Durante il regno dei Flavi, Roma entrò in una nuova fase di esuberanza architettonica e innovazione artistica. Gli imperatori di questa dinastia, consapevoli del potere simbolico delle grandi opere pubbliche, proseguirono con determinazione la trasformazione monumentale della città. Il Colosseo, maestoso e inconfondibile, divenne l’emblema imperituro di Roma: un gigante di pietra destinato ad accogliere e meravigliare generazioni di spettatori.

Ma non fu solo l’architettura a fiorire sotto i Flavi. L’arte romana cominciò a liberarsi dalla rigida eleganza accademica del neoatticismo, un’eredità ormai esausta, per esplorare nuove strade espressive. La scultura, in particolare, sembrò risvegliarsi da un lungo torpore. Anche se non è ancora del tutto chiaro quanto contribuì il retaggio ellenistico in questa evoluzione, è certo che si aprì una nuova stagione stilistica.

Basta osservare i rilievi dell’Arco di Tito – eretto nell’81 d.C. o forse pochi anni più tardi – per cogliere questa rivoluzione silenziosa. Le figure, dense e vitali, non sono più appiattite su un unico piano, ma disposte con sapienza in uno spazio che respira. L’illusione prospettica è ottenuta con raffinate variazioni: dalle teste dei cavalli scolpite a tutto tondo fino alle lance che si dissolvono nello sfondo come ombre leggere.

La vera novità, però, è la curva. Per la prima volta, il corteo di figure non si allinea lungo una linea retta, ma segue un arco convesso, suggerendo il movimento reale di una processione che entra nel fornice trionfale. Le figure, da sinistra a destra, ruotano progressivamente: prima di fronte, poi di tre quarti, infine di spalle. Il risultato è sorprendente: lo spettatore si sente immerso nella scena, quasi sfiorato dal passaggio solenne dei soldati, dei vessilli, dei trofei.

Questa capacità di coinvolgere emotivamente e fisicamente chi osserva anticipa una tendenza che raggiungerà l’apice nel “barocco” antoniniano del III secolo. Ma già con i Flavi, l’arte romana aveva acceso una nuova scintilla: quella dell’illusione, del dinamismo, della teatralità.

giovedì 30 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 36 Arte imperiale classica romana

Arte imperiale classica


Con l'avvento del principato di Augusto, Roma smise di essere semplicemente una città antica per iniziare a trasformarsi nel cuore monumentale dell’Impero. L’urbanistica cambiò volto: l’ambizione imperiale prese forma in pietra, marmo e bronzo. Augusto stesso amava ripetere di aver trovato Roma di mattoni e di averla lasciata di marmo. In effetti, tra il suo regno e quello dei Flavi, prese corpo una nuova concezione dello spazio urbano: gli edifici funzionali – archi trionfali, terme, anfiteatri – cominciarono a imporsi sulla scena, emancipandosi dall’influenza architettonica greca dei templi.

È in questo periodo che nascono capolavori come il teatro di Marcello (11 a.C.), l’arena di Verona, il teatro di Orange e il grandioso Colosseo, inaugurato da Tito nell’80 d.C. e completato da Domiziano. L’arco partico del Foro Romano (circa 20 a.C.) anticipava l’arco a tre fornici, destinato a diventare uno dei simboli architettonici più riconoscibili dell’Urbe.

La scultura: il volto idealizzato dell’Impero

Mentre Roma si copriva di marmo, anche l’arte figurativa si faceva specchio del potere imperiale. La scultura romana del periodo augusteo guardava al passato greco, ma lo faceva con uno scopo preciso: trasmettere l’ideale di un Impero saldo, eterno, perfetto. Fidia e Policleto, maestri del V secolo a.C., furono i modelli da cui gli artisti romani attinsero per raffigurare divinità e uomini illustri, primo tra tutti Augusto. Celebre è l’Augusto loricato, ispirato al Doriforo di Policleto: non un semplice ritratto, ma un manifesto politico in marmo.

Questo stile, detto neoatticismo, prediligeva un equilibrio raffinato, quasi "accademico", che restituiva immagini eleganti ma a tratti fredde, distanti, idealizzate. Solo con la dinastia giulio-claudia si tornò a un’arte più viva, in cui il rigore greco si stemperava nel calore della tradizione romana.

La pittura: stanze che raccontano mondi

Tra il 30 e il 25 a.C. si completò l’evoluzione del secondo stile pompeiano, quello delle finte architetture e delle vedute prospettiche. Ma fu con il terzo stile che si affermò una pittura più intima, ornamentale, come dimostrano gli affreschi della Casa della Farnesina e della Casa del Criptoportico a Pompei.

Un capolavoro assoluto è la sala della villa di Livia a Prima Porta: un giardino lussureggiante che pare espandersi oltre le pareti, un’oasi dipinta di illusionismo delicato e magistrale. E ancora, la villa dei Misteri a Pompei ci restituisce un mondo di riti e miti, dove si intrecciano copie di pitture greche e interventi propriamente romani. Dopo il terremoto del 62, le nuove decorazioni segnano l’ingresso nel quarto stile: illusionismo spettacolare, giochi di profondità e colori vivaci, forse nati per decorare la Domus Transitoria e la Domus Aurea.

Toreutica e glittica: l’arte nei dettagli

Non solo grandi opere. Sotto Augusto, anche le arti minori raggiunsero vette di straordinaria eleganza. Nella toreutica (lavorazione dei metalli) e nella glittica (incisione di gemme) si raggiunse un grado di naturalezza e raffinatezza ineguagliabile. Oggetti piccoli, ma di potenza evocativa straordinaria, come il tesoro d’argento di Hildesheim, la Gemma Augustea (29 a.C.), il cammeo di Augusto e Roma o il celebre Grande Cammeo di Francia, realizzato in epoca tiberiana.

Nella Roma imperiale classica, dunque, l’arte non era solo ornamento: era linguaggio politico, spirituale, identitario. Ogni statua, ogni affresco, ogni oggetto cesellato raccontava il sogno di eternità dell’Impero. E ancora oggi, a distanza di secoli, quel sogno continua a parlarci.

martedì 28 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 35 Pittura nell'arte romana


Pittura

Nel cuore dell'epoca romana, si sviluppò quella che possiamo definire la tradizione pittorica romana, oggi conosciuta come "pompeiana" grazie ai numerosi ritrovamenti a Pompei e nelle altre città vesuviane distrutte dall'eruzione del 79 d.C. Sebbene queste città abbiano offerto una straordinaria testimonianza artistica, il fulcro della produzione pittorica restava Roma. In ogni casa signorile, le pareti venivano ricoperte da affreschi che decoravano ogni angolo, un'esplosione di ricchezza decorativa che rifletteva il gusto e la raffinatezza della società romana.

Tuttavia, queste opere non erano il frutto di un'innovazione artistica romana, ma piuttosto l'eco di una pittura greca ormai giunta all'ultimo stadio, in parte ridotto e banalizzato. La pittura romana si articolava in quattro "stili", meglio descritti come schemi decorativi, che si susseguirono nel tempo.

Il primo stile, che emerse tra il III e il II secolo a.C., si caratterizzava per le incrostazioni architettoniche dipinte, un’arte che trovò diffusione in tutta l’area ellenistica. Il secondo stile, sviluppatosi attorno al 120 a.C. e arrivato fino al 50 a.C., si distinse per l'illusione di finte architetture, un’innovazione probabilmente romana che non lasciò tracce al di fuori di Roma e delle città vesuviane. Il terzo stile, più ornamentale, si sovrappose al precedente e rimase in voga fino alla metà del I secolo, durante il regno di Claudio (41-54 d.C.), portando un respiro più decorativo e ricercato.

Il quarto stile, noto per il suo illusionismo prospettico, raggiunse il culmine intorno al 60 d.C. a Pompei, con una straordinaria ricchezza decorativa, anche se non aggiunse nulla di particolarmente nuovo rispetto a quanto già sperimentato in passato. La pittura romana, pur continuando a produrre opere affascinanti, iniziò lentamente a perdere vigore, con tecniche sempre più sbiadite e stili ormai inflazionati, incapaci di sprigionare la stessa energia di un tempo.

Purtroppo, con la tragedia del 79 d.C. e la distruzione delle città vesuviane, si perse un capitolo fondamentale della pittura romana, lasciando solo frammenti di quella straordinaria tradizione, testimonianze che oggi ci offrono uno spunto prezioso ma incompleto di un’arte che, purtroppo, si inaridì senza più la possibilità di una vera rinascita.

lunedì 27 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 34 Ritratto nell'arte romana

 


Ritratto

Nel corso dell'epoca di Silla, l'arte romana raggiunse uno dei suoi traguardi più distintivi: il ritratto "veristico", che rifletteva l'anima della società romana e la concezione che i patrizi avevano delle proprie virtù. Questo stile, ispirato dalla visione "catoniana" dell'uomo romano, celebrava la forza di carattere temprata dalla durezza della vita e dalla guerra, l'orgoglio di classe e l'inflessibilità morale. Lontano dai modelli ellenistici, che esaltavano la bellezza ideale, i ritratti romani si concentravano su una rappresentazione cruda e veritiera. I volti erano resi con una precisione quasi spietata, ogni ruga, ogni segno del tempo veniva accuratamente scolpito, come a testimoniare la vita dura e l'esperienza vissuta.

Alcuni dei ritratti più emblematici di questo "verismo patrizio" sono la testa conservata nel Museo Torlonia, una replica tiberiana che racconta la forza di un personaggio dallo sguardo deciso, o il celebre velato del Vaticano, che risale alla prima età augustea e mostra un volto serio e pensieroso. Un altro esempio significativo è il ritratto di un ignoto da Osimo, un volto che parla di nobiltà e autorità, ma anche di una vita vissuta in prima linea, con i segni della fatica e della lotta evidenti e non mascherati. Il busto 329 dell'Albertinum di Dresda, che appartiene a questo stesso periodo, porta con sé l'impronta della severità e della determinazione.

Tuttavia, questo "crudo" verismo non rimase immutato nel tempo. Tra il 70 e il 50 a.C., la rigidezza dei volti si ammorbidì, il plastico realismo venne arricchito da una maggiore fluidità espressiva. Il volto, pur mantenendo la sua severità, iniziò a rivelare una serenità più marcata. La testa 1332 del Museo Nuovo dei Conservatori, datata 60-50 a.C., ne è un esempio lampante, così come il ritratto di Pompeo nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, che presenta una figura più solenne, ma anche più armoniosa.

Nonostante la sua centralità in ambito urbano e la sua breve durata temporale, il ritratto romano repubblicano lasciò un’impronta duratura nella storia dell’arte. La sua influenza, infatti, sopravvisse anche nelle rappresentazioni funebri delle classi più basse, come i liberti, che aspiravano ad acquisire una parvenza di nobiltà patrizia attraverso l'arte del ritratto. Questi monumenti funerari, benché meno celebrati, sono testimonianze di come la società romana, anche nelle sue sfumature più popolari, cercasse di riflettere la grandezza dei propri modelli ideali.

domenica 26 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 33 Arte repubblicana romana


Arte repubblicana

L'arte repubblicana di Roma si sviluppa in un contesto di continua tensione tra tradizione e innovazione. Nelle prime fasi della Repubblica, l’arte continuò a riflettere il linguaggio arcaico, come si vede nei templi di Sant'Omobono o nei resti dell’area del Largo Argentina. Ma fu solo quando i romani entrarono in contatto sempre più stretto con il mondo greco che la scena artistica di Roma subì una vera e propria rivoluzione. La conquista della Magna Grecia, della Grecia ellenica, della Macedonia e dell’Asia Minore portò con sé un'ondata di arte greca che investì la capitale, come un fiume in piena. Le casse romane furono colme di sculture, dipinti e manufatti, frutto dei bottini di guerra, mettendo i romani di fronte a una domanda inquietante: come accogliere una cultura che avevano appena sconfitto, ma che sembrava tanto superiore alla loro?

Da questo dilemma nacquero due fazioni, un vero e proprio scontro di visioni artistiche e culturali. Da un lato, i filiellenisti, capeggiati dal circolo degli Scipioni, amavano e veneravano l'arte greca, considerandola un modello ideale da emulare. Dall'altro, i tradizionalisti, guidati da Catone il Censore, erano fermamente convinti che Roma dovesse mantenere la propria identità e rifiutare l'influenza di una cultura straniera. Fu così che, in una Roma sempre più affollata di collezionisti affamati di opere greche, nacque il fiorente mercato delle copie: se le opere originali non bastavano a soddisfare la domanda, si produssero in massa riproduzioni e reinterpretazioni degli stili classici del V e IV secolo a.C., in un fenomeno che gli storici chiamano neoatticismo.

Tuttavia, questa "invasione" di arte greca, che inizialmente sembrava sovrastare la creatività romana, non rimase senza effetti. I romani, digerita l'immensa varietà di modelli greci provenienti da epoche e regioni diverse, iniziarono lentamente a distillare qualcosa di peculiare, un’arte che, pur rifacendosi ai modelli greci, acquistò una sua identità originale. Questo processo di assimilazione e innovazione artistica si concretizzò in maniera evidente sotto il governo di Silla, quando Roma, finalmente, cominciò a sviluppare il proprio linguaggio visivo. La grande svolta arrivò in tre campi fondamentali: l’architettura, che iniziò a dare forma a grandi monumenti e spazi pubblici; il ritratto fisiognomico, che rivelò una straordinaria capacità di cogliere l'individualità e la personalità del soggetto; e la pittura, che si evolse, benché con molta più lentezza, in un'arte che rifletteva il gusto e l’identità romana.

Con il tempo, questi tre settori daranno vita a una vera e propria arte “romana”, che, pur essendo debitrice della cultura greca, comincerà a svilupparsi in direzioni uniche, in grado di rispecchiare la potenza, la varietà e la complessità di Roma stessa.

sabato 25 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 32 Arte romana delle origini e della monarchia

Arte delle origini e della monarchia

Alle origini di Roma, molto prima che sorgessero archi trionfali, colonne istoriate e ritratti in marmo dei potenti, c’era una città di guadi e colline, sospesa tra mito e fiume. La leggenda vuole che Roma sia nata il 21 aprile del 753 a.C., ma prima ancora di quel giorno fatidico, il destino della città era già scritto nel suo paesaggio: un punto di passaggio sul Tevere, vicino all’Isola Tiberina, che univa e separava Etruschi e Latini. Un approdo naturale, l’Emporium, tra Palatino e Aventino, diventò cuore pulsante di traffici, incontri e – presto – di espressione artistica.

Eppure, parlare di “arte romana” in questa fase è forse prematuro. Nell’età protostorica e monarchica, Roma era ancora una giovane città in formazione, e la sua arte non aveva ancora una voce autonoma. Era un’arte “a Roma”, non ancora “di Roma”: un crogiolo di tradizioni italiche, etrusche, latine, a tratti quasi orientali, che si contaminavano a vicenda.

Tra i primi testimoni tangibili di questa fioritura arcaica c’è il tempio rinvenuto nell’area di Sant’Omobono, nel Foro Boario, non lontano dall’approdo fluviale. Siamo tra la fine del VII e la metà del VI secolo a.C.: i resti ci parlano di una continuità di vita e culto che attraversa tutto il periodo regale, come un filo teso tra le case in fango e i primi santuari.

Ma è sotto il regno di Tarquinio Prisco, uno degli ultimi re, che Roma comincia davvero a pensare in grande. Sul Campidoglio si eleva il tempio della triade capitolina, dedicato a Giove, Giunone e Minerva: un’opera gigantesca per l’epoca, costruita nel 509 a.C., proprio l’anno in cui – secondo la tradizione – finisce la monarchia e nasce la Repubblica. Il tempio era monumentale: un alto podio, tre celle affiancate, colonne imponenti sul fronte. Era un’architettura tutta etrusca, e anche le sculture che lo decoravano – realizzate in terracotta, forse dallo stesso artista dell’Apollo di Veio, lo scultore Vulca – parlavano la lingua plastica di una cultura che Roma ammirava e imitava.

Non si trattava solo di templi: tra le imprese titaniche dell’età arcaica spicca la Cloaca Maxima, un’enorme opera di ingegneria idraulica che permise di bonificare la valle del futuro Foro. Oppure le Mura Serviane, che proteggevano una città in espansione e delle quali restano ancora oggi tratti superstiti, incastonati nella trama della Roma moderna.

Eppure, bisogna attendere la fine del IV secolo a.C. per trovare un vero capolavoro figurativo “fatto a Roma” e firmato da un artista: la Cista Ficoroni, uno scrigno in bronzo cesellato con minuzia, decorato con scene del mito degli Argonauti. Un’opera raffinata, che racconta molto più di quanto sembri: è romana nella committenza, ma prenestina nella forma, osco-campana nel nome dell’artista (Novios Plautios), greca nella tecnica decorativa e nel soggetto. Una sintesi perfetta di quel mondo multiforme e meticcio che era l’antica Roma delle origini, ancora lontana dall’imperialismo, ma già ricca di visioni, scambi e promesse.

Roma, insomma, nasce sin dall’inizio come uno spazio di ibridazione: un luogo dove lingue, genti e stili si incontrano, si fondono e, lentamente, iniziano a dar vita a qualcosa di nuovo. A un’arte che, presto, sarebbe diventata davvero romana.

venerdì 24 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 31 Arte romana aulica plebea e provinciale

Arte aulica e arte plebea, arte provinciale

L’arte romana non fu mai una voce sola, ma un coro dissonante e affascinante di linguaggi, forme, intenzioni. Fin dalle sue origini, la società romana si articolò in un profondo dualismo: patrizi e plebei, élite e popolo. E questo divario sociale – reale, tangibile, quotidiano – si riversò anche nel modo in cui Roma decise di rappresentarsi attraverso l’arte.

Da una parte, l’arte aulica, nobile, raffinata, costruita per impressionare, per esaltare il prestigio delle grandi famiglie e dei vertici del potere. Dall’altra, l’arte plebea, umile solo nei materiali, ma potentemente espressiva, diretta, nata dal desiderio di farsi vedere, di farsi capire, di lasciare un segno anche se non si apparteneva all’élite.

Queste due anime dell’arte romana camminarono per secoli su binari paralleli, senza mai davvero fondersi, almeno fino alla tarda antichità. Solo a partire dal III secolo d.C., quando la società romana stessa cominciò a mutare radicalmente, la voce del popolo trovò piena cittadinanza anche nei monumenti pubblici, e lo stile plebeo, con la sua chiarezza incisiva, la sua astrazione simbolica, la sua immediatezza comunicativa, iniziò a contaminare – e infine a rivoluzionare – l’arte ufficiale.

Là dove l’arte patrizia cercava l’equilibrio, la grazia, la citazione colta dei modelli greci, l’arte plebea semplificava, accentuava, rompeva le regole per arrivare dritta al punto. La prima costruiva immagini per gli dei e per i posteri; la seconda per chi passava per strada, per chi voleva riconoscersi in una scena, in un volto, in un gesto.

Ed è proprio da questa corrente, considerata a lungo “minore” dalla storiografia, che nascerà qualcosa di sorprendente: il primo vero superamento dell’ellenismo, ormai esausto nelle sue repliche eleganti ma vuote. L’arte plebea, con la sua forza ingenua e genuina, annuncia le forme e il linguaggio del Medioevo. È lì che germoglia il nuovo: nella rozzezza apparente, nella schematizzazione potente, nel rifiuto del naturalismo in favore del significato.

E mentre questa corrente conquista Roma e si fa largo nei rilievi pubblici, l’arte più aulica migra verso est, rifugiandosi nella nuova capitale imperiale: Costantinopoli. Lì, mescolandosi con le suggestioni di culture lontane – dall’Iran antico a centri come Hatra, Palmira, Dura Europos – darà vita a una nuova fioritura: l’arte bizantina, solenne e lineare, spirituale e simbolica, capace di raccogliere l’eredità dell’ellenismo e trasfigurarla in una nuova visione del mondo.

Così, quello che sembrava un contrasto inconciliabile tra elite e popolo si rivela una delle grandi ricchezze dell’arte romana: due correnti diverse, due strade parallele, che finiranno per confluire in un’unica, straordinaria trasformazione.

giovedì 23 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 30 Alle radici dell'arte romana il rilievo storico

Alle radici dell'arte romana: il rilievo storico

Alle origini della grande arte romana, c’è un’innovazione tanto silenziosa quanto rivoluzionaria: il rilievo storico. È qui che l’arte smette di essere solo bellezza, mito o ornamento, e diventa racconto, documento, potere scolpito nella pietra.

I Greci, padroni dell’armonia e del mito, avevano evitato con cura di rappresentare la realtà nel suo divenire. I Romani, al contrario, fecero della realtà – e soprattutto della propria realtà – il cuore pulsante dell’espressione artistica. Il rilievo storico romano non è una fotografia dell’istante: è un racconto selezionato, costruito, pensato per educare, esaltare, colpire. Non importa che l’evento rappresentato sia accaduto esattamente così: ciò che conta è il messaggio. La narrazione si snoda per immagini come un rotolo illustrato, chiara, solenne, accessibile anche a chi non sapeva leggere.

I primi sussurri di questa arte si trovano in luoghi apparentemente marginali, come un affresco nella necropoli dell’Esquilino all’inizio del III secolo a.C., o nei dipinti tombali di Tarquinia, quando ormai il dominio romano si era esteso su tutta l’Etruria. In quei primi esempi la storia era ancora questione di famiglia: non lo Stato, ma il nome glorioso della gens era al centro della scena, come nel caso della Gens Fabia, immortalata tra le imprese dell’Esquilino.

Ma Roma era destinata a pensare in grande. Quella narrazione privata divenne presto collettiva, e la storia scolpita nei rilievi si fece pubblica, monumentale, rituale. Nacquero così degli “schemi narrativi” standardizzati, che ogni artista doveva seguire come un canovaccio teatrale, aggiungendo solo dettagli legati ai luoghi, ai volti, agli abiti. Ogni guerra vittoriosa, ogni impresa imperiale si trasformava in una sequenza epica, fatta di tappe ben precise:

Profectio: la partenza, quando il generale si mette in cammino con l’ombra della gloria già sulle spalle

Costruzione: strade, ponti, fortificazioni che segnavano la conquista anche sul paesaggio

Lustratio: il rito sacro agli dèi, a sancire che l’impresa aveva l’approvazione del cielo

Adlocutio: l’allocuzione alle truppe, il momento in cui il comandante infonde coraggio e visione

Proelium: la battaglia, cuore drammatico del racconto

Obsidio: l’assedio, dove il tempo si comprime in un’immagine tesa

Submissio: la resa dei vinti, simbolo visivo del dominio romano

Reditus: il ritorno, quando le insegne brillano sotto il sole di Roma

Triumphus: il trionfo, con il corteo tra le acclamazioni del popolo

Liberalitas: il dono al popolo, che chiude il cerchio e rinsalda il patto tra potere e cittadino

In questi rilievi non c’è spazio per l’ambiguità: ogni gesto è eloquente, ogni figura è una parola scolpita. L’arte si fa linguaggio ufficiale, uno strumento di memoria e di propaganda. E mentre le generazioni future passano davanti a quelle pietre parlanti, imparano cosa significhi essere romani.


mercoledì 22 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 29 Eclettismo nell'arte romana

Eclettismo

Man mano che Roma si trasformava da potenza militare a capitale di un vasto impero, le sue vie si riempivano di statue, bassorilievi, pitture e oggetti d’arte provenienti da ogni angolo del mondo greco: da Atene a Pergamo, da Rodi a Taranto. In questo vortice di bellezza importata e di stili sovrapposti, prese forma uno dei tratti più affascinanti dell’arte romana: l’eclettismo.

Non era solo una moda, ma un riflesso profondo dell’identità culturale di Roma. Un’identità stratificata, fatta di radici italiche antiche, di influenze etrusche, e soprattutto, di una massiccia assimilazione del linguaggio figurativo greco. Di fronte alla molteplicità di modelli a disposizione, i Romani non cercarono mai di uniformare. Al contrario, celebrarono la varietà. Amavano accostare opere dai linguaggi opposti: un bassorilievo realistico accanto a una statua idealizzata, un fregio popolare vicino a una scena mitologica elegante. Per loro, armonizzare il diverso era un esercizio di prestigio, un gusto raffinato per il raro, per il curioso, persino per l’incongruo.

E spesso questo eclettismo non si fermava all’allestimento degli spazi, ma si incarnava nelle opere stesse. Non era raro che una sola scultura o un fregio unisse stili differenti, iconografie lontane, temi di mondi diversi. Il risultato? Un’arte capace di parlare molte lingue, di rivolgersi a pubblici diversi, di contenere nella stessa cornice la cultura aristocratica e quella popolare, il culto degli dèi e la memoria storica.

Questa inclinazione all’ibridazione, sorprendentemente, non fu un sintomo di decadenza – come sarebbe accaduto in altri contesti culturali – ma una caratteristica originaria dell’arte romana. Anzi, fu proprio nei suoi primi secoli che l’eclettismo sbocciò con più energia. Un esempio emblematico è l’Ara di Domizio Enobarbo: una parte del monumento, oggi al Louvre, raffigura con crudo realismo la presentazione di animali per un sacrificio, in uno stile che ricorda il mondo plebeo e italico; un altro fregio, conservato a Monaco di Baviera, mostra un corteo di divinità marine in uno stile ellenistico colmo di grazia e movimento. Due mondi in un solo monumento.

E non era un’eccezione. Anche grandi commissioni pubbliche, come l’Ara Pacis voluta da Augusto, mostrano una perfetta fusione di linguaggi: il naturalismo romano che si sposa con l’eleganza greca, il mito che si intreccia alla storia, l’austerità del potere che si veste di raffinatezza estetica. L’arte romana, fin dai suoi primi passi, fu un caleidoscopio di influenze, una voce corale in cui ogni stile trovava il proprio posto, anche quello più inaspettato.

martedì 21 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 28 Produzione di copie nell'arte romana

Produzione di copie

Tra i tanti tratti distintivi dell’arte romana, uno in particolare racconta molto del suo spirito pratico e della sua capacità di assorbire, reinterpretare e trasformare: la produzione in serie di copie delle opere d’arte greche. Non si trattò di un semplice omaggio all’estetica classica, ma di un vero e proprio fenomeno culturale e commerciale, che prese piede a partire dal II secolo a.C., quando a Roma si formò una classe di collezionisti avidi di bellezza e prestigio.

I bottini di guerra non bastavano più. Le statue trafugate da Siracusa, da Corinto, da Pergamo non soddisfacevano la crescente domanda delle élite romane, che desideravano adornare ville, giardini, portici e templi con opere ispirate ai grandi maestri del V e IV secolo a.C. La soluzione? Riprodurre, replicare, moltiplicare. Nacque così un'industria del bello, una produzione in massa che non si limitava alla scultura — la forma più visibile e duratura che ci è giunta — ma coinvolgeva anche la pittura, l’ornamento architettonico e le arti applicate. Tutto ciò che poteva arricchire lo spazio e comunicare gusto e potere era degno di essere copiato.

Queste copie, oggi, sono la nostra finestra su un mondo perduto. Grazie ad esse conosciamo i volti dell’arte greca: il pathos di Skopas, l’equilibrio di Policleto, la grazia di Prassitele. Ma le copie romane sono state, per molto tempo, anche trappole per gli studiosi moderni: il loro stile più rigido, talvolta scolastico, ha indotto a lungo a credere che l’arte greca fosse fredda, accademica, idealizzata fino all’astrazione — un’idea poi superata, ma difficile da sradicare.

E c’è di più: per i Romani il concetto di “originale” e “copia” non aveva lo stesso valore che ha per noi. Non esisteva un culto della primigenia, nessun feticismo dell’autenticità. L’opera d’arte valeva per il suo soggetto, per la sua bellezza, per il suo significato simbolico o decorativo. Originale o copia, poco importava: bastava che parlasse la lingua del prestigio, del sapere, della virtù.

Naturalmente, non mancavano i casi di "libere interpretazioni" — o, per usare un termine moderno, di pasticci: come nel caso di alcune repliche del Pothos di Skopas, in cui l’opera fu duplicata in modo speculare per creare composizioni decorative da parete, del tutto estranee all’intenzione dell’artista originario. Ma proprio in questa libertà di manipolazione si rivela un altro volto dell’arte romana: quella capacità tutta romana di piegare il passato al presente, l’estetica al contesto, l’arte alla vita.

lunedì 20 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 27 Innovazione nell'arte romana

Innovazione nell'arte romana

Nel mondo dell’arte romana, l’innovazione non si manifestò quasi mai come gesto rivoluzionario, come folgorazione creativa che rompe con il passato. Al contrario, l’arte figurativa di Roma — la pittura e la scultura — si nutrì di modelli preesistenti, di suggestioni già esplorate, di stili consolidati. Eppure, in questa apparente mancanza di novità assoluta, si cela una forza nuova e profonda: la capacità dei Romani di dare vita e senso a forme antiche, rendendole strumenti attuali e potentissimi.

A differenza dei Greci, sempre alla ricerca di un ideale estetico perfetto, i Romani non si curavano di creare dal nulla. La loro non era un’arte del sogno o dell’astrazione, ma del mondo reale, della storia vissuta, della politica concreta. Non inseguivano la bellezza assoluta: volevano lasciare un segno, trasmettere un messaggio, scolpire nella pietra un’identità collettiva. Perfino le opere più spettacolari, come la Colonna Traiana — vero capolavoro narrativo scolpito nella pietra — sono eccezioni più che regola.

Le radici di questa visione affondano nel passato italico: popoli per i quali l’arte era sempre stata qualcosa di pratico, istintivo, legato alla vita quotidiana e al culto degli antenati, più che a una tensione filosofica verso l’assoluto. Quando Roma cominciò a sviluppare una propria forma espressiva — tra la metà del II secolo a.C. e l’epoca dei triumviri — non lo fece da sola, ma sostenuta dal genio delle ultime botteghe greche e italiote, impregnate di cultura ellenistica. Fu un’arte ibrida, eppure autentica, capace di parlare una lingua nuova usando parole antiche.

Così, anche se i motivi iconografici si ripetevano, anche se le pose erano spesso mutuate da modelli greci, l’arte romana brillava per una qualità tutta sua: la freschezza. Una freschezza che nasceva dalla perfetta aderenza ai temi della vita romana, dalla capacità tecnica altissima con cui venivano eseguite anche le opere più seriali. L’artista romano non era un sognatore: era un artigiano della memoria, un costruttore di identità. E in questo stava la sua grandezza.

L’arte romana, dunque, non fu innovativa nel senso greco del termine. Ma fu incredibilmente moderna nella sua capacità di adattare, semplificare, tradurre. Fu un’arte profondamente efficace, sempre al servizio della civiltà che l’aveva generata. E proprio per questo, ancora oggi, ci parla con la forza di ciò che ha radici profonde e rami che si spingono lontano.

domenica 19 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 26 L'uso dell'arte romana

L'uso dell'arte romana

Nell’universo dell’arte romana nulla era superfluo, nulla puramente decorativo: ogni opera aveva uno scopo preciso, ogni immagine un messaggio, ogni ornamento un significato. Diversamente dall’arte greca, che poteva nascere anche dal desiderio astratto di bellezza, l’arte romana era sempre al servizio di qualcosa: del potere, del prestigio, della memoria, della propaganda.

Dietro ogni affresco, ogni statua, ogni gioiello o cammeo, si celava un intento. L’estetica cedeva il passo alla funzione, o meglio, si piegava ad essa. L’arte serviva a mostrare forza, a raccontare conquiste, a scolpire nella mente collettiva l’immagine del potere. Anche gli oggetti più raffinati — vasi di metallo prezioso, vetri soffiati, gemme incise, fregi vegetali — non erano mai fini a se stessi: esprimevano lo sfarzo, la ricchezza, la superiorità del loro proprietario. Erano simboli di status, non semplici espressioni del gusto.

Le grandi statue pubbliche, i rilievi storici, le decorazioni architettoniche delle basiliche o dei templi erano veri strumenti di comunicazione. Ogni linea, ogni posa, ogni scelta stilistica era studiata per rafforzare un’idea: l’eroismo dell’imperatore, la stabilità dello Stato, la grandezza di Roma. E anche quando un’opera colpiva per la sua perfezione formale, dietro quella bellezza si celava sempre un messaggio. Il valore estetico era importante, certo, ma mai disgiunto da un intento celebrativo. La forma era al servizio della funzione.

Per questo motivo, per secoli, l’arte romana è stata vista attraverso una lente distorta, giudicata come una copia sbiadita dell’arte greca, un’imitazione priva dello slancio ideale che animava i capolavori del classicismo ellenico. Questa visione, detta "neoclassica", ha dominato a lungo, identificando l’arte romana con una sorta di crepuscolo dell’arte greca, un’epoca di riflessione passiva e manierata.

Ma poi arrivò una nuova luce. Grazie agli studi della Scuola viennese di storia dell’arte, si iniziò a vedere l’arte romana per ciò che era realmente: un linguaggio autonomo, libero, adattabile. I romani non avevano semplicemente copiato i modelli greci: li avevano reinterpretati, rimodellati, messi al servizio di nuove esigenze. Avevano preso quelle forme antiche, svuotate del loro significato originale, e ne avevano creati di nuovi, più concreti, più diretti, più funzionali al loro tempo.

Questa capacità di riutilizzo creativo non morì con l’Impero. Anzi, fu proprio grazie a questa flessibilità che l’arte romana continuò a vivere nei secoli. Nelle prime rappresentazioni cristiane, la Nike alata divenne un angelo, il filosofo barbuto un apostolo, e i simboli pagani si trasformarono in icone della nuova fede. Un’eredità che non fu mai interrotta, ma semplicemente tradotta.

Così l’arte romana ci parla ancora oggi non solo con la bellezza delle forme, ma con la forza del suo messaggio. È l’arte di un popolo che volle dominare il mondo e che, attraverso la pietra e il colore, riuscì a raccontarsi in eterno.

sabato 18 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 25 Romani e Differenze con l'arte greca

Differenze con l'arte greca


«È uso greco non coprire il corpo [delle statue], mentre i Romani, in quanto soldati, aggiungono la corazza.» (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 18)

Immagina un mondo dove le statue non parlano solo di dei e miti, ma raccontano la storia viva dei conquistatori, dei generali, degli uomini che hanno plasmato l’Impero. Un mondo dove l’arte non è soltanto bellezza, ma anche memoria, propaganda, autorappresentazione. Questo mondo è quello dell’arte romana, che nasce sì dall’arte greca, ma prende poi una strada tutta sua, concreta e profondamente legata alla realtà.

Quando i romani conquistarono Siracusa nel 212 a.C., poi la Grecia e l’Asia Minore tra il II e il I secolo a.C., non si limitarono a prenderne i territori. Presero le loro statue, i dipinti, gli oggetti preziosi, e li portarono a Roma come trofei. Come scrive Livio, da quel momento nacque un’ammirazione tanto sfrenata quanto inevitabile per l’arte greca. Fu l’inizio di un’invasione al contrario: la Grecia, pur vinta, conquistò Roma con la seduzione del bello. E Orazio lo disse con parole che ancora oggi restano scolpite nella storia: Graecia capta ferum victorem cepit — la Grecia prigioniera catturò il suo selvaggio vincitore.

Ma Roma non fu mai solo imitazione. Ispirata dalla Grecia, certo, e a tratti perfino rapita dal suo fascino, l’arte romana si piegò a un altro scopo: raccontare la realtà. Mentre i Greci sublimavano anche la storia in mito — trasformando le battaglie in lotte tra Dei, Centauri e Amazzoni — i Romani vollero mostrare il vero. Le loro opere rappresentano fatti, avvenimenti, protagonisti reali. Non l’idea astratta del coraggio, ma il volto stesso dell’uomo coraggioso. Non una figura mitica, ma un console, un imperatore, un senatore, con le rughe della saggezza e lo sguardo della determinazione.

Questa svolta fu rivoluzionaria. Nacque così il ritratto romano, una delle massime espressioni della loro arte, che non cercava l’ideale, ma il vero. Quei volti, scolpiti con cura, non cercavano la perfezione, ma la somiglianza, l’identità, la memoria. L’arte greca idealizzava, l’arte romana individualizzava.

Anche nelle statue, i romani non avevano timore di mescolare: a un corpo idealizzato, perfetto secondo i canoni greci, potevano unire una testa realistica, segnata dal tempo o dal potere. Una combinazione che avrebbe scandalizzato un greco del V secolo a.C., ma che era ormai diventata comune tra gli artisti neoattici del II secolo, proprio per soddisfare le richieste dei nuovi committenti: i patrizi romani, avidi di arte, ma anche decisi a essere riconosciuti e ricordati.

E se i Greci avevano fatto dell’arte una voce corale della polis, espressione di ideali condivisi, l’arte romana divenne più personale, più politica. Servì a costruire l’identità pubblica, a scolpire nella pietra il volto del potere, a imprimere nella mente del popolo la grandezza dell’Impero.

Così, nella sua concretezza, nel suo realismo, nella sua capacità di adattarsi e rinnovarsi, l’arte romana ci parla ancora oggi con voce ferma e lucida. È il racconto di una civiltà che ha voluto essere ricordata non per i sogni, ma per le conquiste. 

venerdì 17 gennaio 2025

Corso di Storia dell'arte: 24 Romani

 ARTE ROMANA
















Immagina una città che nasce da un mito e diventa padrona del mondo. Roma, dal leggendario abbraccio di Romolo e Remo fino all’imponente crollo dell’Impero d’Occidente, ha tracciato nei secoli un cammino artistico tanto vasto quanto complesso, capace di estendersi dalle colline laziali fino ai deserti africani, dai porti dell'Asia Minore ai confini ventosi della Britannia. Quando parliamo di arte romana, parliamo di un’avventura millenaria che intreccia conquista e contaminazione, potere e bellezza, ideologia e innovazione.

All’inizio, l’arte di Roma era semplice, quasi ruvida, figlia delle genti italiche — campani, etruschi, latini — che già decoravano il loro mondo con forme sobrie e simboli immediati. Ma tutto cambiò quando Roma incrociò la Grecia. Fu uno scontro e un abbraccio, insieme. I romani guardavano all’arte greca come a qualcosa di sublime e irraggiungibile, eppure consideravano gli artisti greci poco più che artigiani da sottomettere. Questo strano miscuglio di ammirazione e disprezzo non impedì ai romani di assorbirne lo stile, di copiarlo, reinterpretarlo, e infine farlo proprio. L’arte greca, prima mal tollerata, divenne progressivamente parte dell’identità romana, pur con varianti che mantenevano vive le spinte autoctone e, in qualche modo, anticipavano già l’arte romanica di secoli dopo.

Ma parlare di arte romana non è mai un fatto semplice: è come percorrere un fiume che si ramifica in mille rivoli, con confini che si allargano di generazione in generazione. Gli studiosi si sono a lungo interrogati su quando esattamente nacque “l’accento romano”, quell’inconfondibile impronta che distingue la produzione artistica della città eterna da quella delle altre culture italiche. E poi, via via che l’Impero si estendeva, sorse un’altra domanda: possiamo chiamare “romana” anche l’arte delle province? L’arte della Gallia, della Spagna, dell’Egitto ellenizzato?

In realtà, Roma non impose mai un modello unico. Piuttosto, fu una forza centripeta: da Roma partivano idee, valori, simboli del potere, ma questi si intrecciavano con le tradizioni locali, generando forme nuove, ibride, vitali. Questo continuo scambio tra centro e periferia, tra ideologia e creatività locale, fu il vero cuore pulsante dell’arte romana.

Eppure, Roma non si limitò a ricevere: cambiò, plasmò, impose. Anche nei territori ellenistici — fino a quel momento faro di civiltà artistica — si fece sentire la forza di una nuova visione. L’arte, per i romani, non era solo bellezza, ma celebrazione: dell’individuo all’interno dello Stato, dello Stato come garante di ordine e prosperità. In questa prospettiva, ogni statua, ogni bassorilievo, ogni affresco diventava parte di un discorso politico, un messaggio di potere e di appartenenza.

Lo storico dell’arte Paul Zanker ci invita a guardare l’inizio dell’arte romana non tanto con la fondazione della città o l’avvento della Repubblica, ma con un momento preciso: la conquista delle città greche. La caduta di Siracusa nel 212 a.C., quella di Taranto nel 209 a.C., la sconfitta del re Perseo di Macedonia nel 168 a.C., e infine la distruzione di Cartagine e Corinto nel 146 a.C. furono più che vittorie militari: segnarono l’ellenizzazione profonda di Roma. Da quel momento, non fu più solo l’arte dei vinti ad affluire a Roma: fu Roma stessa a trasformarsi, a ricreare il proprio volto a immagine e somiglianza di una civiltà conquistata ma mai davvero sottomessa.

L’arte romana, in definitiva, è un’epopea: una narrazione ininterrotta di potere, bellezza e contaminazione. E come tutte le epopee, continua a parlarci, a sedurci, a porci domande.

giovedì 16 gennaio 2025

Corso di storia dell'arte: 23 Etruschi Oreficeria

Oreficeria

Gli artigiani etruschi furono in grado di praticare le più sofisticate tecniche di lavorazione dei metalli preziosi, tra cui il repoussé (sbalzo/cesello), l'incisione, la filigrana e la granulazione. La conoscenza di queste tecniche giungeva loro attraverso l'influenza degli artigiani e degli oggetti di lusso provenienti dal Vicino Oriente, ma gli Etruschi seppero perfezionarle e adattarle alle proprie esigenze, dominandole in particolare tra il VII e il VI secolo a.C. Le loro capacità artistiche e tecniche nella lavorazione dei metalli preziosi si riflettono nelle straordinarie opere che, come gioielli, entravano a far parte dei corredi funerari, e che sono giunte fino a noi grazie agli scavi archeologici.

Tra gli oggetti più significativi rinvenuti nelle tombe etrusche, spiccano quelli provenienti dalle tombe Barberini e Bernardini di Palestrina e dalla tomba Regolini-Galassi di Caere. Tra questi, un oggetto che assumeva un significato particolarmente distintivo per lo status sociale del defunto era il pettorale in lamina d'oro, un simbolo di prestigio e ricchezza. Accanto ai gioielli, l'oreficeria etrusca includeva anche il vasellame in materiali preziosi, come l'oro e l'avorio, talvolta importato da altre culture, ma spesso prodotto localmente da artigiani immigrati. Caere e Vetulonia si affermarono come centri di eccellenza per questo tipo di artigianato estero, divenendo luoghi dove anche gli apprendisti etruschi potevano formarsi nella lavorazione dei metalli preziosi.

Nel VI secolo a.C. non si registrano grandi innovazioni tecniche rispetto al periodo precedente, ma si assiste a una maggiore attenzione agli aspetti estetici e coloristici, con l'inserimento di pietre colorate negli oggetti. Gli orecchini a bauletto, tipicamente etruschi tra la metà del VI secolo a.C. e la metà del V secolo a.C., rappresentano un esempio emblematico di questa produzione. Mentre la produzione di epoca arcaica a Vulci è caratterizzata da una decorazione più semplice e da influenze greco-orientali, a Caere si sviluppò una produzione più complessa e raffinata, con l'uso di tecniche avanzate nella lavorazione dei metalli e delle pietre.

Dopo il VI secolo a.C., la filigrana e la granulazione scomparvero dalla produzione etrusca, ma il repoussé continuò a essere ampiamente impiegato. Con l'avvento dell'epoca classica ed ellenistica, si diffuse l'uso di corone con foglie in lamina d'oro e delle bulle, decorate a sbalzo, che divennero caratteristiche distintive della gioielleria etrusca in questo periodo. La produzione di gioielli nell'epoca ellenistica, in particolare, rifletteva un forte influsso delle produzioni tarantine, e la filigrana e la granulazione tornarono in auge, rinnovando la tradizione etrusca con nuove forme artistiche e tecniche. 

mercoledì 15 gennaio 2025

Corso di storia dell'arte: 22 Etruschi Scultura

 Scultura

La scultura etrusca, pur essendo fortemente influenzata dalla scultura greca, non seguì un percorso di armonia e perfezione formale. I singoli centri svilupparono gli stimoli che giungevano dall'esterno in modo autonomo, dando luogo a una produzione diseguale ed estranea a coerenti ricerche formali. Sebbene la scultura greca di epoca arcaica e classica esercitasse un influsso importante, le interpretazioni etrusche furono più libere e soggettive. Influenze ioniche e attiche si evidenziano tra il VI e il V secolo a.C., mentre la scultura greca di epoca classica fu recepita in modo marginale e superficiale, senza una vera e propria assimilazione dello stile armonico e ideale delle opere greche.

Dalla prima metà del V secolo a.C., le forme scultoree etrusche si attardano su elementi arcaici, persino più originali rispetto al passato, segnando un rinnovato interesse per le tradizioni locali e le forme autoctone. In questo periodo si nota un’influenza maggiore della cultura e delle tecniche locali, che preservano caratteristiche uniche nella scultura funeraria e religiosa. Con il IV secolo a.C. inizia la produzione dei sarcofagi in pietra, che segnerà il passaggio a una fase più complessa della scultura funeraria, culminando nell’età ellenistica con la realizzazione delle eccezionali urne rinvenute nell'ipogeo dei Volumni a Perugia. Queste urne sono tra le testimonianze più significative della scultura funeraria etrusca, unendo precisione tecnica e una straordinaria capacità di espressione emotiva.

I materiali principali con i quali si esprime la grande scultura etrusca sono il bronzo e la terracotta. Sebbene il bronzo sia stato impiegato in opere di grande rilevanza, come la famosa Lupa capitolina e la Chimera di Arezzo, di cui restano alcune tracce, la terracotta ha lasciato un'impronta decisiva nella produzione scultorea, soprattutto nelle decorazioni architettoniche e nei templi. Le testimonianze più significative in ambito pubblico e privato provengono da opere votive e funerarie, che erano utilizzate non solo per decorare templi e santuari, ma anche per scopi simbolici legati alla religiosità etrusca. In questo contesto, la scultura in terracotta assumeva funzioni decorative, votive e funerarie, rispecchiando la centralità dei culti e dei riti religiosi nelle società etrusche.


martedì 14 gennaio 2025

Corso di storia dell'arte: 21 Etruschi Pittura

Pittura

Gli ambienti sepolcrali non erano gli unici luoghi affrescati in Etruria, ma sono quelli meglio conservati. Dalle prime esperienze del VII secolo a.C., l'uso di dipingere le pareti delle tombe con scene legate agli ideali della vita aristocratica, ai riti funerari e alla vita ultraterrena si diffuse, manifestando l'accoglienza della lezione della pittura greca in scene a soggetto sempre più complesso. Inizialmente, queste scene erano mediate dalla ceramica greca, che fondeva temi locali con i modelli greci. La tecnica pittorica maggiormente utilizzata era l'affresco, mentre in pochi casi si riscontra l'uso della pittura a secco; uno di questi è la tomba del Barone.

A una prima fase di grande libertà nella composizione e nella scelta tematica, che rifletteva l'apertura verso nuove influenze culturali, seguì un periodo di maggiore contenimento e standardizzazione. I grandi e complessi cicli pittorici si svilupparono con la metà del IV secolo a.C. e culminarono nella famosa tomba François di Vulci, che, caratterizzata da una più accentuata volontà celebrativa e da più precisi riferimenti alla realtà contemporanea, rappresenta uno dei massimi esempi di arte funeraria etrusca. Tra le tombe dipinte etrusche, essa è quella che maggiormente si avvicina ai sepolcri tarquiniesi, dove si formò una scuola pittorica particolarmente originale e vivace, nota per la sua capacità di combinare realismo e simbolismo in un linguaggio visivo unico.

Le tombe di Tarquinia, in particolare, si distinguono per una tradizione pittorica che raggiunge l'apice con il perfezionamento del ciclo figurativo, in cui le scene raffigurano non solo riti funerari e mitologia, ma anche la vita quotidiana, con una vivacità che conferisce una dimensione quasi "contemporanea" a quelle rappresentazioni. I pittori etruschi, pur prendendo ispirazione dalla tradizione greca, svilupparono uno stile proprio, capace di fondere influenze diverse in un linguaggio che rispondeva ai bisogni culturali e sociali delle élite etrusche, impegnate in un raffinato gioco di citazioni e reinterpretazioni.


Corso di storia dell'arte: Azcona 1988

Azcona 1988 Abel Azcona (Madrid, 1º aprile 1988) è un artista spagnolo specializzato in azioni artistiche. L'artista Abel Azcona durante...